L’aeroporto è quello che
chiuderà, e la nuova copertura bianca inaugura, ma a qualcuno non interessa, e
qualcuno non si ricorda. L’allarmista che è solito rilassarsi con un caffè in
questo stesso terminale (due ore prima dei suoi brevi voli) non ci aveva visto
giusto, ed italiani che sanno cose ma vanno in un’altra città della nostra
stessa meta guidano la corsa verso l’ascensore nel transito effettivamente
breve che non lascia nemmeno il tempo per un brezel, nemmeno il tempo per la
consueta birra propiziatoria. Le chiacchiere già english speaking di chi si
cautela con una fiaschetta in mano scivolano rapide di controlli ETA, e il
Dreamliner comodo e possente solca i cieli artici dei terrapiattisti, i
finestrini che saranno presto sostituiti da telecamere oscuranti per le dieci
ore dieci di intrattenimento diurno, i migliori bar del Canada e le aziende
milanesi di piumini le grandi attrazioni di un magazine che ruba la scena ai
film disponibili sullo schermo individuale. Vancouver, ebbene sì, questa era la
nostra destinazione, British Columbia (but not only) here we come, 17 giorni da
introdurre nelle macchine dei visti automatici, totem e maschere native ad
agghindare i corridoi, le formalità doganali estremamente ridotte e compassate,
il sole di un’ora dopo la nostra partenza quello di strisce pedonali e street
food giapponese, la Wolfsburg edition targata Ontario già in attesa del nostro
drop off epocale, only automatic e lettore cd che impone subito Baghdad a
scapito delle radio locali. Uno svincolo e poi sono i lenti semafori della 99 a
introdurre a due viaggiatori su tre i concetti base della periferia del Nord
America: case basse, vie commerciali, reticolato regolare, quartieri di
villette nel verde, bellezza e squallore a convivere fianco a fianco, in un
panorama reso magico dal famigerato foliage che tanti mancarono, quando già
Fairview lascia intravedere l’altro lato della medaglia, la Downtown di
grattacieli, condos (fenomeno recente altrove ma già più che preponderante
nella città asiatica del Canada), edifici polivalenti e alberatura random. E’
charme, non siamo in carcere, nessuna nuvola per la nostra stanchezza da
dissimulare, il garage at the back che riporta subito suggestioni mai sopite,
Raincouver non la vedremo ma qualcuno troverà occasione di goretexare la marca
di grido locale, le elezioni locali alla tv, la Nikon ansiosa a scattare in
verticale frammenti di finestre, gli hotel lussuosi e le boutique troppo
danarose di una Robson mai vista, Burrard e l’hot dog della bambina che bigia
la scuola, chiese in mattoni e vetri azzurrati. Chi ci precedette, pareri
diversi ma uguali, l’entusiasmo quasi obbligato che scema con la nostra
valutazione del Waterfront, ombra di attrazioni da bypassare, streghe di un
Halloween ancora minoritario di paillettes a tarda sera, panoramicità
sacrificata di vele Canada Place ed esplicativi, catene ingombranti di
posizioni strategiche e porto industriale cantierizzato. Quando si cambia
quartiere fioriscono i souvenir shops, sciroppo d’acero e giubbe rosse
d’ordinanza, ma Gastown ha l’atmosfera pacata e rilassante del più bel district
vancouveriano, mattonato storico e piante ad abbellire, moda e arte, pub
rigorosi di leggi statali e bar tolleranti di un Friday night già frizzante di
pomeriggio. L’unica notte di fuso regala pochi attimi solitari prima di un
tramonto da studiare, l’aumentare di beggars per chilometro quadrato attorno
alla Chinatown di classiche, prospettiche porte d’ingresso, l’odore di una
cannabis legalizzata da due giorni preponderante nelle backstreets di
matrimoni, la visita guidata degli eventi curiosi presso il nostro alloggio, il
servizio lento degli indiani a far cadere la preferenza non studiata su The
Keg, marchio di festività e bar completo, signature dishes e kids menu onnipresenti,
l’amara certezza di mance preimpostate dagli istituti di credito e tasse
corpose da aggiungere a parte. Colazioni americane a intermittenza, waffle
corpose e tazzoni di percolato, affollamento del sabato e preferenziali di
mappe rigorosamente Google in modalità offline, per Stanley Park è amore a
prima vista e non potrebbe essere altrimenti, il trenino dei piccoli nascosto
alla vista assieme all’acquario di repliche valenciane, i totem leggiadri e
colorati di soste cinesi di prima mattina, l’apice dell’autunno nei tre colori
delle foglie, jogging mattutino lacustre, Lion Bridge eterno di campate e
prospettive desiderate di North Vancouver. Capilano è la quintessenza delle
attrazioni del continente, pennoni e bandiere, code disciplinate, prezzo a
prima vista esorbitante, parcheggio curato da pagare contactless e paperless,
percorsi alternativi che rendono il barcollante ponte sospeso sul canyon solo
una delle tante cose da fare, nella fiumana di turisti che comincia ad
affollare le case sugli alberi e le montagne di zucche decorative di ragni
giganti che spaventano i più piccoli. Le consuete curve della memoria di un cervello senza caffeina si dipanano tra legno bianco e qualche macchia arancio
e nera, Edgemont Village di bandiere e urbanistica quasi elegantemente regolare,
il serpentone della 1 in un debutto impersonale di traffico e foschia su ponti
lontani nel tempo e nel valore, il canyon gratuito di Ganni un’uscita da non
prendere, Hastings ancora villette di una classe sociale inferiore, la portualità
e i manifesti per molti candidati sindaci, uomini cartello e birrifici,
concessionarie auto nelle inevitabili wastelands di 250 gusti di Casa gelato,
un rosa dipinto e generazione settima, la cheesecake alla zucca che ancora
grida il suo rimpianto di piccoli cucchiaini ai gettoni verdi e al dragonfruit
di gomma. Granville Island è la meta del sabato pomeriggio di turisti e
autoctoni, code in ingresso di svincoli da indovinare e case sotto i piloni, il
parcheggio in fondo all’ultima speranza, il paradiso di dettagli architettonici
minimalistici, vinerie e saggina, whiskyteche e riciclo, teatro spontaneo e
code di artisti, il pub dell’hamburger di pesce con birra rigorosamente
prodotta in loco, listelli di legno colorato, le foto ricordo nella baia, il mercato
icona del cibo in un addio già consumato alle palle museali e ai piloni
sportivi, lunghe attese tra puzzle commemorativi di destinazione prossime e
slime dalle mille forme e colori, trucchi per il bianco e per il nero, la
realtà virtuale da tralasciare. Capra! E poi sì, siamo riusciti a farci servire
acqua (gratuita) senza cubetti di ghiaccio in Nord America. Che stress! Sono le
quattro e mezza di mattina in questa stanza buia. Cosa ho dimenticato? Cosa
dimenticheremo? Caricabatterie, magliette, beauty case? Guidare col buio, i
fari che abbagliano stancano, ma fermarci non possiamo, o perderemo l’aereo. La
strada è già fatta, e aiuta. Addirittura un pezzo a piedi, poi il tratto
portuale e con la foglia d’acero e il numero non si può sbagliare. Si ascolta
il padre o no? Dietro dormono, di fianco no. Le chiavi ancora non hanno causato
drammi. Al mio ritorno devo fare Hi-tech. Di weekend non arrivano email.
Profumo di cannabis che entra nell’abitacolo. La città deve essere finita.
Nebbione. Calatrava. Che flash! Ecco che comincia una lenta alba, il profilo
delle montagne basse circostanti. Speed Limit 110, great. Uscite laterali
chiuse e un cambio direzione inutile. Le deviazioni di chi ha avuto tempo (o
l’ha sprecato?), i vini dell’Okanagan, i ponti dei confini con gli USA, parchi
nazionali accessori. E la luce. Wikigenia sa anche che Kamloops si poteva
raggiungere in 4 ore, e così è stato indubbiamente fatto. Chevron e una foto
che diventerà un resoconto, un disincanto aleottiano davanti alle sfide perse,
le patatine Old Dutch in tanti gusti per palati esigenti solo sulla carta, un
espresso versato e il beverone starbucksiano che sarà il must quotidiano del
guidatore folle, no second driver, che i coast to coast della vita si ascrivano
a un nome solo. Anche il risparmiatore alla fine ha mollato, e certo come
pensavi che qualcuno potesse restare da solo per così tanto tempo? La 5 è più
stretta, aici foliage s-a dus (s-a dus de mult), Clearwater la provincia
universale che può atterrire, rocce scavate e case blu di bandiere
commemorative, Blue River un sorpasso in regime di lavori in corso di un
cartello che raddoppia la multa, poi Valemount il riposo già memorabile dell’area
protetta, un gadget di una collezione difficile Ty, tetti azzurri e il Mount
Robson come profilo amico. E poi il vuoto che nessun Google Maps metaletterario
potrà colmare, l’attenzione già focalizzata sul feticcio di Fil.ippo e della
Lonely Planet, la casetta del pedaggio di ingresso, Jasper, nome mitico di
itinerari deviati, un lago a forma di ferro di cavallo che nemmeno la
segnaletica orizzontale, tronchi secchi e la porta che non si chiude,
bestemmie, l’intuizione del capitano di bordo non graduato, la rinuncia degli
orsi, ho visto un animale, e allora proviamo la corsa, niente canyon, Edith
come Annette, il riflesso il valore aggiunto delle berline con bagagliaio
gigante. E sì dai che ce la facciamo! Le auto si muovono solo nella direzione
opposta alla nostra. Straniamento dovuto, ma l’avevo letto. Visto, anzi. Ma la
neve non c’è? Il Medicine delude di pozze di fango. L’acqua si ritira fuori
stagione, proprio come le attività commerciali (persino le colazioni negli
hotel) di questa landa unescata già nel 1978. E alla fine il ghiaccio è solo un
piccolo lastrone, i piedi nudi in letargo per tutto il viaggio, e si sprecano
selfie e foto ricordo mentre qualcuno cerca di parificare il numero di scatti
deliranti tra fari di pick-up DOP e legno nel Lake Maligne (due stelline per
Carolina e Alina) avaro di traversate. Arieti, cervi e alci colorano il
tramonto stanco dei 900 km, l’opzione più prevedibile diventa l’unica
percorribile al gelo delle catene che imitano le costruzioni di montagna della
zona, Alberta, quasi quasi ci dimenticavamo di essere da te, le tue bistecche,
la tua targa bianca e rossa, la tua bandiera blu, Inn una magia in un cortile
di un motel, recensioni Tripadvisor, lingua tedesca e poutine dell’uomo ricco,
Taste Atlas la chiave di lettura di una cucina canadese che ‘non è raffinata
come quella italiana o francese’ (cit.). E una bottiglia di vino dell’Ontario,
che oggi era pur sempre la data indimenticabile, falcidiata dalle altre più
imponenti ricorrenze del viaggio. La macchina fotografica di Charly è già nella
spazzatura, il meccanismo di apertura della lente non ha perdonato. E Altitude
di Air Canada è ancora in camera nostra. In Via Adorni qualcuno si sveglia e sa
di avere una giornata vuota davanti a sé. Boschi consolerà con un buon salame
di Felino. L’ora noi l’abbiamo già persa, e nel freddo di un mattino buio la
stazione di servizio regala costose colazioni in dollari canadesi, carne secca
ad interi scaffali, muffin non così onnipresenti come si poteva pensare, Tim
Hortons col logo vecchio giallo e nero, il solito mix di caffè ed energy drink
per vincere il terrore della neve, le stelle da colorare di giallo portatrici
di speranza, 288 km di una strada nota in tutto il mondo, Rockies, Icefields
Parkway e un dettaglio di cartina, la prima sosta ad Athabasca Falls tra i
cartelli di pericolo e le statistiche sui selfie mortali, poi la consapevolezza
di un’altra giornata di sole fortunato. Si piange di nervosismo perché non si
riesce a fare un brano a pianoforte. Che bello! Questa strada è stupenda! Dove
sei Luigi? Devo chiamare i miei, è un po’ che non li sento. Uno. Due. Tre.
Quattro. La gioia per aver finito con le luminarie in cantina. È quello? No.
Sììì. Ma è chiuso? Torniamo indietro. Sì è chiuso. Closed for the season. La
passeggiata sospesa sul vetro con vista panoramica sul ghiacciaio, nel punto
più alto della strada. Fa freddo. Una foto che non rende. Sono contenta. Il
passaggio da un parco nazionale all’altro lascia inalterato lo scenario. Qui
Giovanni può fare tutte le camminate che vuole. Era vicino, chissà perché non è
venuto. C’è un lago dove si fermano tutti a fare le foto. E poi un altro. E un
altro ancora. Cosa vuol dire Lake? Lac! Forza! Veloci che voglio tentare il
Moraine. Il sito del parco nazionale era lapalissiano. E così è, maledetti.
Closed. Ma ci si può arrivare. Sono solo 11 km. 11 km all’andata e 11 km al ritorno,
con un bambino che non cammina, nella neve. Sei fuori? Lake Louise (formerly
Laggan) ha il respiro della villeggiatura di un tempo, a partire dal gemellaggio
con la cartellonistica disneyana, il consueto hotel della Fairmont di quando si
sognava Whistler, un parcheggio enorme di premi JOM, le mappe dove scattare
foto nella neve senza la prova del crimine, una refurtiva rosa che cadde nella
trascuratezza di uno zoom, di un ‘lascialo in macchina’, di una scrollata di
spalle, e la riva ghiacciata fa il paio con il versante di pini e ombre, il
riflesso ancora una volta valore aggiunto di uno scenario montagnoso da vera
cartolina Explore. Così giunge l’ora della splendida Banff di Natalia Milazzo
(non quella cupa dei Bianchi), turistica il giusto tra un binario di cala
ferata e una giovane coppia che si selfizza davanti all’orso in legno
dell’ingresso in città, Aspen esiste, Lodge no, e la responsabilità spesso collegata
a una risposta tardiva non ha colpe tra i cassetti aperti dalla donna delle
pulizie, l’anello del basket di una vittoria in sirena su Eurosport, il
tabellone desertato del WTA, la sosta impossibile di chi sa che la luce non
durerà a lungo tra i tetti a punta di ogni sogno nordamericano, il B&B e la
cena senza passare dal via. Il toponimo scozzese lascia sempre l’amaro in
bocca, ci si chiede perché non si provveda a trovare un toponimo delle first
nation, ma sicuramente qui c’è Dollarama e non la Tesco, e l’importanza del
luogo ha largamente trapassato quello della località originaria, proprio come
per Perth, Australia e i suoi anolini di Natale a 34 gradi. Terra di rugby
nella landa dell’hockey, il lacrosse passato inosservato, steakhouse pregiate e
palle di neve di località limitrofe, papà chiede un pub, la passeggiata sul
fiume al ritmo dei club privati, negozi monomarca di tutti i giganti della
neve, il triangolo di legno, l’alcool confinato nei liquor shop e la cannabis
nei supermercati, compagnie miste di giovani e tardo giovani, la sala delle
bandiere un buon compromesso tra la qualità del miniburger e l’ambiente tipico
di una montagna che lasceremo. Ice Wine, Marco, mi spiace ma non è proprio quel
granché. Siamo in orario. Quasi dai, ma pensavo peggio. Ecco le aiuole di ieri,
la ferrovia. Eppure il presentimento c’è. Si espliciterà a sorpresa, nel
parcheggio. Un’anatra da salvare in meno. Tristezza. E l’uomo morto è un
trasferimento effettivamente veloce. Ma poi c’è il traffico in entrata. Una
città che voglio proprio vedere. Ho letto tanto, a riguardo. La più ricca del
Canada. Il Cavalry FC. Lo Stampede e i soliti forti con personale in costume.
La ricchezza del petrolio. Edmonton è stata tagliata dall’itinerario, ma almeno
Calgary c’è. Si ritirerà dalle Olimpiadi 2026 sparendo nel totale oblio
nuovamente. Ma la 2 è coda. Usciamo, finalmente. Il profilo lontano dei
grattacieli di Downtown a ispirare ogni incrocio semaforato di centri
commerciali a casette e condos grigio-neri, concessionarie auto immancabili e
ponti ferroviari dell’origine della città. Parcheggio. L’orientamento nei
reticolati non è mai immediato. Grave errore in diretta non entrare con carta
di credito. Mentre si piange per un piumino, si gela per il sottozero delle 7.
Barbieri che sembrano colazioneri. Ferrovie, di nuovo, Torri, chiaro. Ecco la
via pedonale di shopping e nobiltà passata. Non si trova un posto decente.
Urlano. Andiamo qui. La chiave, grazie. Smoothie, voglio provarlo. Il caffè,
insomma. È sempre l’unica cosa che definisce il mio minimo di italianità. Mario
Alfieri non è passato invano. Anche qui (come a Toronto e a Montreal, n.d.s.)
c’è un percorso per le ore di gelo, stavolta sopraelevato e non interrato. Al
volo da Starbucks. Negozietti interessanti. I Fire non li abbiamo mai seguiti.
Peccato mortale. Già l’uscita giusta. E improvvisamente siamo in un film. Siamo
proprio dentro un film, aspettando l’ascensore che ci porterà con altre
comparse ai piani alti della finanza canadese CBC. No, macché. Noi dobbiamo
scendere. Anzi io devo correre, chiedere indicazioni (persino!) e pagare
l’obolo alla municipalità, prima di sbagliare strada dando ragione al mio
istinto ribaltato dalle parallele, locali notturni, supermercati per cani e
gatti (esistono da anni anche a Milano), parcheggi sterminati vuoti, traffico
canalare, di nuovo la 2 per la 1, periferia già piatta di impianti industriali,
la skyline ormai remota che non ci abbandona, la consapevolezza del
trasferimento lungo nella curva del tir davanti allo sterrato. Ok Corallo,
stavolta lo svincolo del GPS è quello giusto, l’acero bianco su campo verde,
ancora una giornata di sole, la pianura poco accattivante di impianti di estrazione
petrolifera, niente dinosauri per noi, Brooks, la sosta delle strade chiuse a
imbuto quella di chi sogna di fotografare i dettagli architettonici di tutti i
motel del Nord America, il più grande tepee del mondo a Medicine Hat. E alla
fine la bandiera desiderata arriva, il giallo, il verde e il fiore della zona,
lunghi treni merci che accompagnano lo scorrere del tempo, una strada così
vuota da poter fare un selfie alla mezzeria lasciando le ore 10, il grano
ovunque di chi ne produce in quantità abnorme, Saskatchewan, questo sì che è un
posto da visitare lontano dai luoghi comuni, la terra dei cieli viventi,
metafora assolutamente realistica di una landa romanticamente deserta dove le
opere d’arte da ammirare sono i fantastici silos bianchi di legno che
punteggiano il lento macinare dei chilometri che calano a centinaia. E il
windshield preoccupa, l’avvertimento dell’ocho che torna in mente, l’abbigliamento
da cowboy dei rodeo lungo la strada, Gull Lake il nulla di una mappa appesa
alla parete, gomma da masticare, vecchie porte a vetri e sentore mongolo, Swift
Current uno svincolo su di un bosco collinare, cimiteri, l’ordine dei giardini
senza recinzione, Moose Jaw che resta lontana con i suoi murale dell’era d’ora
del proibizionismo statunitense. Regina è una Regina? Piccola capitale di
memorie da Spazio Ultima Frontiera, ormai ridotto a collezionare frazioni. E la
tangenziale sanguina, lavori di chi investe in infrastrutture, immissioni a
sinistra di semafori canalati, il foliage pia illusione alinica, case basse a
balconi bianchi, cartelli gialli di deviazioni, l’ora tarda del marciapiede in
rifacimento all’università, il parlamento d’ordinanza di una foto a stato per
il diario facebookiano, cercare un oggetto perso tra le foglie, panchine di
pietra, percorsi di scoiattoli. Gli attimi diventano per pochi minuti eterni,
le riserve lontane di indicazioni e sterrati, negli occhi tuoi io vedo un dono
che prezioso un giorno rivelerai, decorazioni gialle quasi spagnoleggianti, medical
specialists, Scotiabank e Plaza, ristoranti etnici, Downtown di squilibri e
parcheggi, as usual, un giro dell’isolato di ideogrammi e Casinò, Holiday Inn e
Best Western le scelte oculate di sbarre e figli che nascono. Cala l’oscurità,
magica in questa provincia ricca di pochi grattacieli a uffici chiusi, barber
shops, locali prelevati direttamente dai 60’s, una piazza centrale di eredità
Fairmont e strip colorata di locali messicani, I will think of you tonite, il
pub e il trespolo, la steakhouse senza finestre, la regola da derogare nella
villetta psychocraviana, Kitchen+Wine bar e ATM nella hall della sala da ballo,
un hamburger di bisonte e il cielo che cambia colore dietro al silo. E poi la
sento, quella maledetta farfalla. Oggi si fa colazione! Pancake, mamma c’è la
macchina che le fa. Sciroppo d’acero, yum! Un signore col gillet arancione ha
finito. Papà legge le notizie locali. E si parte, uffa. Mettete genialità!
Dicono che cambi un po’ lo scenario, chiese strane, benzina da autorizzare,
case basse e semafori, poi sterpaglia che segna il confine con il Manitoba, PIL
più basso e gente simpaticamente americana, SUV e trucks gli unici compagni di
viaggio, io e te insieme, Brandon una metropoli universitaria, Portage la
Prairie, le solite urla ‘timidooooo’ per due finestre colorate, liquirizia,
‘che brutta che è questa città’. E i chilometri in ingresso fanno dimenticare
la Parmalat che saluterà poco dopo, c’è l’aeroporto, c’è la piantumazione
recente, c’è un parco diffuso, lontano sulla destra, ci sono condos orribili a
intervalli regolari, ininterrotte attività commerciali (persino il ‘primo’
KFC), le rows di villette nascoste alla vista nelle laterali alberate, c’è il
sentore di capitale in edifici monumentali e musei contemporanei,
cartellonistica, la vita è facile con la voce parlante quando non propone
inversioni a U. Winnipeg, today it was just a matter of 500, una passeggiata
questo viaggio già giunto a metà percorso e senza difficoltà di nessun tipo,
solo due persone in tutto il viaggio non hanno capito il nostro inglese (una
nemmeno il francese), servizi eccellenti ovunque, infrastrutture più che buone,
ok mi direte, queste cose si sapevano già, ma verificarle sul campo è sempre
più probante che assumerle per sentito dire, più gratificante per chi dovrà
tornare ai parcheggi in doppia fila e sul marciapiede, alla gente che non si
ferma alle strisce pedonali, agli anziani che cercano di passare davanti nelle
file. Oggi sarà l’ultimo giorno di sole completo, e gustiamoci allora questa
città meramente americana, isolata dal resto del Canada e più vicina a
Minneapolis, anche nell’appeal un po’ datato di skyline vecchie e isolati
devastati di hotel giganti e casupole bambine, il succo di frutta alla
reception, primo piano ad angolo e vista sulle luci che si accenderanno, Minion
sale, la Lola no, ci sono due ingressi e l’altro è decisamente più consono,
sale riunioni a piano terra, capelli rossi e chili di troppo. The fire still
burns, Broadway sembra una piccola NY, ordine urbanistico, il profilo della Railway
Station, tunnel di tubi, The Forks l’area giochi chiusa dei bimbi piccoli, un
paio di landscape memorabili dell’architettura dei nostri tempi (Canadian
Museum for Human rights e il mercato coperto rilanciato da street food e
boutique di un’artigianalità che vola), caramelle colorate, una statua di Lego
dove nascondersi, il freddo pungente dell’addio scontato alla seconda comunità
francofona (St. Boniface e il suo rosone vuoto, ma cosa manca a questa frase?)
e allora sì che non falliremo più. Sììì, (finalmente facciamo) qualcosa per me!
Museo dei bambini, si chiama. La giacca giù. Là ci sono i bagni. Illusioni
ottiche, saliamo. C’è lo scivolo. Poi lo rifaccio. Esperimenti. Lanciamoli, da
dove scendono? La lasagna! Il treno, adesso vi faccio i miei travestimenti.
Uffa, è già passata un’ora? Chiude. Dai, ancora qui. Riel, figura dibattuta dei
diritti dei Métis, Chez Sofie sur le pont ha chiuso, il flavour calatraviano
figlio di Prefontaine e Gaboury per un must che si imprime nella memoria mentre
calano le prime e ultime ombre, gestalt forms ispira, zeroism meno, Shaw Park
romantico monumento al baseball, Exchange District l’apparizione che conquista,
alberatura e dettagli recenti, cortili berlinesi e il seme dell’alternativo,
flashback newyorkesi a ripetizione, strade larghe non vi deluderà, colonnati
classici e monumentalità verticali, skaters, abbigliamento di seconda mano e
gallerie d’arte, palestre per pugili, classici ristoranti di ispirazione
francese (sei matto?), birre locali da meditazione, bettole ucraine e lavori in
corso, we’re back in Portage and Main, terra di nessuno, ma l’unico flusso
possibile è quello delle magliette bianche e delle magliette blu, Maple Leafs e
Jets pronte a sfidarsi al Bell Centre. La coda è tensione, emozione. La
biglietteria ha un posto solo prima del sold out ufficiale. Il manager dello
stadio, gentilezza e disponibilità, ma i prezzi già più volte sondati online si
confermano immancabilmente quelli, forse eccessivi per un piccolo disco di
metallo da intravedere dalle piccionaie viola dietro la porta. E se il primo
pub dice no, resta sempre l’elegante Keg a South Portage a spalancarci porte di
servizi impeccabili e televisorini, must continentale assoluto, a seguire le
evoluzioni ospiti vincenti con la consueta razione quotidiana di patatine fritte.
Forza, forza, che oggi perdiamo l’ora. Flusso di coscienza. C’è qualcosa sul
parabrezza. Finalmente i Nickelback. Ontario. Ecco i cartelli del passato. 10km
in meno di limite, sigh. La polizia? Qui non c’è mai la polizia. Radar
illegali. Come è già cambiato il paesaggio. Addio, praterie. Qui rocce, pini e
laghi. Da subito, e dureranno per tutto lo stato. Forse alla fine
complessivamente il più bello. Lake of the woods la prima grande attrazione. E
chi la conosceva? Kenora. Alina scende e scatta due foto. Ma il cielo è grigio.
C’è un centro vecchio. Un pesce enorme. Charlotte ride, è ancora piccola. Giro turistico dell’isolato. Season
is closed, we already know that very well. Ufficio informazioni
turistiche. E di nuovo l’acero. Dryden sarà la sosta successiva. Appeal
devastato dalle industrie pesanti, non è la prima volta. Banche, farmacie,
hamburgherie, supermercati. Quattro eroine che sparano caramelle. Meglio
Ignace. Molto meglio. Un molo e una foto ricordo per il primo pilota delle
Airways locali, tre idrovolanti più uno dismesso, e chissà quale febbrile
attività sotto il capannone. Piano piano recupera il foliage. E torna il
sorriso sul volto di Alina. Nuvole e pali della luce. English River, che nome
originale. Ci sono delle cascate. Ma che ci siano davvero, che non sempre il
toponimo Falls è garanzia. Sì, ci sono, e che sorpresa. Pagare il parcheggio
alla macchinetta automatica di corsa sotto la pioggia appena prima della
chiusura: fatto. Kakabeka, ci vorrà un po’ per memorizzare questo nome. I
turisti sono tutti statunitensi. Il confine è vicino. Memorabili. E il traffico
si canalizza all’ingresso della Baia del Tuono. Ci piace più la collina, il
centro col suo pubblicizzato Waterfront è rimasto indietro, recessione e nomi
finlandesi, una banca sprangata, un ristorante di lusso fianco a fianco. I
nativi sono pericolosi? That’s why I’m asking. Tappi a profusione. Il letto in
cui non si dormirà. A ogni risveglio un cambio. E le scale antincendio delle
vertigini. Si sbuca dietro la reception. C’è la sauna, c’è la piscina.
Corridoi, il vecchio lift il nostro inizio serata. Red River Road aveva
conquistato. Van Norman non piace a Fuzz. E poi c’è Tomlin, la stella di quella
guida che non ne azzecca una. Sala principale, grazie. Ostriche del New
Brunswick, favolose! Birra. Tutto il vino della carta è dell’Ontario. I salumi,
scelta difficile. La tartare di salmone, scelta difficile. Rovinano tutto con
le salse (cit.). E diluvia! That’s a good drive! E la concentrazione serve
maggiore proprio quando sei stanco, che ovvietà da gombloddo, seguire il
traffico mentre i benzinai locali non hanno beveroni, non hanno muffin, non
hanno crostate, l’uscita da Thunder Bay di nuove costruzioni sul lago e canzoni
senza verve, maleducato, lo scuolabus dalle luci rosse la chiamata a raccolta degli
studenti del lago Superiore, un profilo assente per lo Sleeping Giant,
attrattiva rimasta sulla carta assieme a un canyon sfuggito persino alla
toponomastica, ed è Nipigon a timbrare finalmente il cartellino per Tim
Hortons, nuovo logo e nuova costruzione che sforna colazioni salate e dolci per
sikh, camionisti e rari turisti europei, il Wi-Fi per la mappa fino alla prossima destinazione. Tim Hortons! Tim Hortons! That’s Canada in one
picture, one logo, one image. That’s simply Canada. E al bivio di
un’alba che comincia lentamente a colorare di riflessi il lungo lago, la strada
si biforca e lasciamo la 1 per seguire l’unico percorso possibile verso una
meta che sia soddisfacente per chi festeggia 40 anni proprio oggi, nel bel
mezzo del nulla dell’Ontario dell’ovest, dove i laghi si susseguono rapidamente
in sequenza, destra, sinistra, di nuovo destra, con qualche fiabesca casetta di
legno e rari insediamenti di deposito legname e negozi di necessities. Neve.
Ghiaccio sulla strada. Pensiamo ad altro. C’è ancora il cinque davanti?
Stamattina c’era quasi l’otto. È andata. Forse tornerà, non si sa. Siamo già
nel punto più alto? Ora comincia lentamente a scendere. Longlac e il suo
drugstore, ci fermiamo all’Husky e vuoi non coccolare un peluche in più? Fuori
fa freddo, si avvicina il sottozero. Hearst ha un pennone dimostrativo, statue
in bronzo, casette in legno da fotografare, chiese periferiche sulle colline. Finalmente
ti avrò, tra le mani ti avrò. Kapuskasing, nomi tributari, ci siamo, un Comfort
Inn a casetta, la roccia su cui scolpire il lungo toponimo rosso, plumbing and
heating, ristoranti e immancabili listelli bianchi, Chevrolet, Buick e GMC,
funghi come centrali, depositi come garage. L’ultimo bivio nella foresta e una
delle dieci gemme nascoste dell’Ontario si svela ai nostri occhi stanchi e
curiosi, una rotonda esplorativa, la squadra giovanile di hockey, una triste
steakhouse di passaggio dalle tovaglie come le camicie di Armand, l’hotel di un
treno che non partirà, suggestioni hopperiane e sfumature di Delvaux tra i fili
lontani dei binari. Cochrane, Ontario. Non Cochrane, Alberta. Subito fuga, la
grande attrazione a biglietterie spente ha un’ora da regalarci, il parcheggio
fangoso, la recinzione vicina, le case con giardini curati nel neighborhood
accanto, Polar Bear and Habitat, Heritage Village, finalmente, aveva ragione
Alina, un West pittoresco e una pinguinaia a scivoli, i tre orsi polari A, B, C
e gli avvistamenti rapidi, la pozza in solitario, la boule de neige bianca, il
museo delle slitte un altro omaggio al grande assente. E restano momenti
gioiosi, fa capolino un sole quasi caldo dalla coltre di nubi permanenti, la
Jetta si ferma senza fretta per scatti a ripetizione che immortalano la morte,
le tombe, gli zombie, le ragnatele, i pipistrelli, i mostri verdi e
naturalmente le onnipresenti, amatissime zucche arancioni. Epperò, io volevo
farlo qui Halloween! Il lago dei cigni ha corridoi a ingresso secondario, una
colazione take-away assai comoda, una stanza larga di un compleanno
alternativo, il giardino e l’abbaino, il fumatore della casa accanto e
l’affollamento del parcheggio per il saluto alla ditta di pompe funebri.
Nemmeno Google Maps ha mappato queste strade, il profilo fantastico delle
villette sul lago, l’eleganza della semplicità, e una bakery scalcinata vende
mirtilli in pasta spacciati per torta, pigiami sformati e gente poco curata nei
sotterranei del supermercato, una felpa che costa troppo, ici on parle
Français, mais ouais, c’è anche la rosticceria cinese sul tramonto di lamiere
colorate e birre per motori da revisionare. Si rompe il tavolo? Questo è un
tavolo dell’Ikea (cit.). Tanti auguri, Alobello. Perdonaci se la poutine non è
il massimo. Se dietro alla candelina ci sono dei fili da ospedale. Se tutti
festeggiano qualcosa proprio qui, in questo venerdì sera atipico di verande e
vestigia in mattoni. Per noi sarà un ricordo bellissimo. Spazzolino. Pillolina.
Docciavelox. Porta sul retro. Tre valigie. Ghiaccio da sbrinare. Alfleila
waleila. Nooooooo! Una figlia che non si fa più vedere. Un matrimonio saltato
all’ultimo. Un viaggio in treno dove amoreggiare. Colui che teneva la
contabilità. Vite ai margini da non condividere. Ciao Cochrane! Cosa fate a
Cochrane? Questo è un posto stupendo. Dormono. Via! Laghi di qua, laghi di là.
Iroquois Falls. Avevo cercato anche là, nessuna cascata. Charlotte prendi il
tablet che leggiamo Lapappadicharlotte. Il bivio per Timmins, anche là. Siamo
nella terra di Alice Munro. Nomi giapponesi. Kemagami, lo scorcio più bello.
Isolette e casette di legno. Temagami, la sosta. North Bay, Nipissing e la
volante della polizia. Lavori in corso. Aumenta il traffico, aumenta la
concentrazione di aziende agricole, aumenta il numero di cartelloni
pubblicitari, resta invariato il paesaggio incantato. Ed è ormai periferia del
tentacolo, canalizzazione da sabato pomeriggio, un aeroporto e una strada che
non cambiò nome, le quattro corsie di marcia, sto passando Burlington,
Mississauga e i motel da convention, Hamilton intravista di QEW, le stesse
casette, oggi ci sono centri commerciali, villette vista lago, bivi di aziende
vinicole Maiatico style. E dov’è questo ponte? Non ci fanno passare. Devo
tornare indietro. Melissa,
Melissa, asì voce me mata. On-the-Lake was fully booked. E allora
replichiamo quello che non avremmo mai pensato di replicare. Una svolta a
sinistra, una svolta a destra. Risalgo cercando lo squallore consumistico.
C’era lo scivolo, c’era la sedia arancione gigante. Howard Johnson does not
serve breakfast. Sotto il garage coperto, subito a sinistra. Ecco il mio
tavolo. Mi concedo al Nord America. Mi invitano dentro a pranzo. Piove e salta
la gara al circuito automobilistico. Ruota panoramica, ci torneremo. Dracula,
chi si ricorda Jeeves? Motel dei divertimenti. Niente battello, niente parete
d’acqua, ma gabbiani e urla a profusione. Una foto da ripetere da venti
angolazioni diverse. Col foliage è un’altra storia, anche col diluvio. Per me
adesso. Labirinto degli specchi, in 3. Labirinto dei laser, in 2. Niagara
Brewing Company, try them all. E poi sala giochi, gettoni e tentativi. Filmati
che mostrano dove siamo. Semafori pedonali dove aspettare il verde. TexMex e
medievalità. La mia stanza dà sul retro, che prezzo però. Lampada di design.
Avevo prenotato la tranquillità. Quella di un’omonimia, di un indirizzo al di
là della strada, parcheggi per mafiosi tra motel chiusi. The Keg, we thought we knew you. Where did you
come from? I don’t know. You don’t know it? Yes, from the parking place. Who
are you, to wake me up? Your glory won’t last forever. E dai marciapiedi
ghiaiosi della Skylon Tower emerge un quartiere nuovo, un ristorante parcheggiato
con menu retrodatati, Fallsview Boulevard e il suo feticcio, gli hotel di lusso.
Una birra all’Hard Rock Cafe per meditare sul senso della vita. Pioggia, pavé e
alberi piantati di recente. Impalcature costeliane, trogloditi contemporanei,
accappatoi e code scomposte, ninnoli che si illuminano tra le chiacchiere
compassate di coppie su di età e l’entusiasmo sferaebbastico di canestri da
fare con palle vere per gli statunitensi in gita premio in un mondo migliore. We are here in Niagara Falls. Ahahah.
Great place, great food. Lo spruzzo che passa dal celeste al viola per I
fortunati in prima fila, l’arcade l’ultimo dei gironi danteschi allo stesso
prezzo, la bistecca di ribs da consegnare ai ricordi riusciti, calici di vino
autoctoni per un défilé di modelle in incognito. Life will find a way. Vai col
party! Una mattina canadese qualsiasi, il fresco del cielo grigio, la
pioggerellina degli addii, i saluti alla reception, una deviazione che regala
sprazzi di una città vera tra parrucchiere e villette di laterali ignote, la
quarta volta di un tragitto a vento, ponti e nebbia. Signora Capra? York era un
nome imbarazzante, Toronto suona nativo e grandioso, svincoli di una vita fa, caro
Gretzky ne sono passati di condomini, verticalità nera che conquista o repelle,
sensazioni ottime di prospettive lacustri di quando ancora si sentivano pareri
sconclusionati, corriere stravaganti e angeli azzurri, sontuoso e monumentale
il Financial district ci accoglie in anticipo di valet più economici della
tariffa base e stanze di ascensori panoramici esterni che saranno pronte
all’ora di una mamma dedicata, china su una figlia che fa i compiti del
recupero. Il primo angolo aperto di una domenica lontana dai fasti è I love
(TH), la waffle salata della martellante pubblicità radiofonica, ciambelle
arcobaleno e finti focolari, turisti con la trolley del Torontoniano Imbruttito,
la pista di pattinaggio promessa ancora in fase di realizzazione e quel genio
di Viljo Ravell, se avessi letto il mio racconto sapresti che Yonge un tempo
era solo negozietti di souvenir, e Google Maps ha già fatto ampiamente la sua
parte, laterali sondate, edifici perlustrati, l’unico papabile senza insegna da
tempo. Ci si perde e nessuno urla, giacca in mano, stivali alti, la Disney non
colpirà qui, il watch smart oltre il budget previsto, una chiesa di
pedonalizzazioni arretrate da intuire, gocce, strade affollate e il fantasma si
disperde, cliniche, particolari colorati, Babbo Natale, uffici a scrivanie,
immigrazione ed integrazione, fermate di quando ancora solo si intuiva, la
folla sdraiata sul manto erboso in rifacimento dei campus estivi e del giallo,
arancio, rosso di stagione. Qualcuno chiedeva finestre. Qualcuno chiedeva
documenti di identità. Stupendosi. Qualcuno pronunciava male. Qualcuno lancia
l’amo della grande attrazione, quella che richiede un mutuo giornaliero. La
signora anziana ci segue pedissequamente. Finirà persino con noi, per fare il
percorso inverso. Probabilmente una spia. Life is so short. Museum non è il ROM
che sognavo, oltre le Zywiec finalmente consegnate. Queen’s Park è l’umidità.
Spadina (non lo pronunciamo più correttamente, che il vagone è affollato e
nessuno strimpella Bob Dylan) è una panchina vuota in un ritorno da
perfezionare. Dupont è un nome che dice tanto, quel francesismo che comincia a
serpeggiare silente. Case annerite dallo smog in un crocicchio di falsi
ricordi. Sottopassi a ciclisti. Viali di nuove mansions amorevolmente in stile
con il resto del quartiere, la ferrovia come delimitazione di classe, autunno ai
massimi splendori, un paio di corridori in tenuta a scavalcare l’ostacolo
turista sulle scale già casalomiane di una South Hill da sogno, cani a
passeggio e ombrelli estemporanei per l’organizzazione di un biglietto pagato
due volte, stanze da gustare in successione di docce preistoriche e balconi da
discorso, giardini di percorsi vampireschi e passaggi segreti come antidoto
alle vertigini, la lunga attesa per gli spezzoni di ogni film girato in loco
dagli ultimi horror sino agli esordi di Tom Cruise. E Union Station non ha alci
senza corna. Non ha manifesti per le partite dei Blue Jays, Raptors ora
dignitosi. Si sbuca nel PATH, per omaggio alla finzione di interessi mai
sbocciati. Il caso premia sempre due volte. E la memoria si sblocca. Sono al
bancone in un giorno di lavoro. La pausa pranzo, forse davvero tipica. Pintaguinness. Ovviamente no. Zuppe,
per tre. We now change the menu, from brunch to dinner. C’è da fare la
differenziata, carta, plastica e residui di cibo. Una fontana a cani e gatti.
Facile, facile. Sono seduto là e mi gusto la birra. Il terzo invece non lo
troverò. Pallido sole di Flatiron noti. Suppellettili. Backstreets di ingressi
teatrali. Ecco il tuo mercato. Ma è chiuso. Apre domattina. C’è l’antiquariato,
nel telone, giusto dietro, prima che sbaracchino. E David Crombie già lo sa,
che non ce la farò. In dei conti l’avevo sempre saputo. Ho scoperto da poco che
ci fanno anche il mercatino natalizio, al Distillery District. King chiude,
aveva già chiuso. Nessun terrone, ma il vento c’è. Ci sono cortili ad arte
esposta e interni eleganti, qualcuno vuole risparmiare. Il battito veloce di
chi cerca suggestioni remote al buio di una steakhouse ancora da aprire,
l’unica chiusura dell’anno per lo staff party nel lunedì del nostro battesimo
tardivo, Starbucks a ogni angolo come nella NYC dei tempi d’oro, un tavolo
tutto da disegnare per un capolavoro non esposto (con firma del cameriere,
n.d.s.), una bolla di cocktail virato dolce, le mille luci notturne di percorsi
verticali e contemplazioni orizzontali dal ventitreesimo piano dell’ereditiera.
Ah Tuh-run-nah, amarti è davvero l’unico riflesso possibile, ora come allora.
Kings & Queens, England and Scotland. Appuntamenti previsti di muffin,
portatili e colori di capelli, etnicità, il buio sintomatico che sfuma in alba
leggera di traffico, il serpentone di aspettative assai peggiori, e poi riparte
il nastro dell’alba dell’acero rosso, Pickering, Ajax, Oshawa (che scopriremo
poi essere ricchissima) a ‘sto giro perfino nobilitata da un’uscita e da un distributore
bianco e azzurro per il solito pay at pump, due cupole argentate di chiese
ortodosse russe a vegliare l’ennesima ripartenza della 1. C’è persino la
tentazione di mettere i due video in parallelo e uscire allo stesso svincolo
del raptus, tenere duro, la coda di gillet gialli ante litteram è quella per
una toilet promiscua dopo l’agognato bivio, 5 dollari di una lotteria vincente
che non si potrà ritirare avendo superato il confine di stato, finalmente i
Cheap Trick, Neil Young ancora, e il film chiarisce il suo primo finale, uscite
da saltare, nuvole minacciose, l’orizzonte l’unica speranza inutile di una
settimana senza sole. Keeper! Sono atterrato, vado in hotel. Kanata, il primo
insediamento, il nome che originò tutto, quante nozioni mancavano all’ingenuo
parmigiano. Follow Metcalfe Street, come se fosse ieri. Nicholas offre cantieri
attivi e qualche chateau-like accessorio tra i panorami di una città nota e non
nota, condominii ripetitivi, svolta a destra, poi ancora a destra, poi a
sinistra, quartiere tranquillo di opere d’arte, insegne arancioni, cortili
interni a balconati di pioggia nei posaceneri, un genio sconosciuto come molti
di quelli ancora in vita, IFS, Guilbault, Les Suites, Gatineau non ci
arriveremo, Byward stavolta sarà molto più di un respiro trendy, sarà il giorno
e la notte della capitale, sarà il sole degli scatti e la pioggia della
disperazione. L’infilata di pub stende il pallido ritorno dei cappellini da
baseball, il divieto preistoria, Bank e dintorni inesplorate nella scelta
conservativa di non trovarsi davanti al fantasma di una scimmia, ici on parle
déjà français, zucche al mercato, i biscotti di Obama, il panino di Charlotte,
la ponderazione che parte nella testa, la scritta ricordo, le scalinate di
ambasciate ormai tranquille. E dall’abbaino del mancato affaccio parte una
nuova perturbazione che invade le chiuse dell’UNESCO, il teatro isolato, i
monumenti alla nazione, la sfilata di bandiere stilizzate e non, i restauri
opprimenti al Parlamento, le tettoie di placche commemorative, le strade
lontane di percorsi già battuti con l’omino giallo. Nessun paio di scarpe da
lasciare al deposito zaini, nessun gruppo dei 7, nessun caffè, nessuna arte
degli Inuit, è lunedì e il museo gioiello è chiuso, la distanza preclude, la
balconata è quella del coro, le vetrate policromamente fantastiche, mance ed
elemosine, percorsi della memoria da demolire una volta per sempre con un
selfie al bancone del pub battezzato, la consapevolezza di quei momenti che
durano per sempre, per la seconda volta. Il prigioniero è rimasto in Sparks
Street. Al mall ci va il fotografo timido, con cuffia e basco. Attraversamenti
pedonali nei lavori in corso, souvenir shops bui di magliette che inneggiano,
Topolino fa 90 anni, il fenomeno Greta Van Fleet, la cucina e gli
interrogativi, sconti natalizi, multisala per lo Schiaccianoci e i quattro
regni. Cenare è un volo di vini locali, per l’ultima volta la parolina magica
Ontario, tartare di ambienti già profondamente europeizzati di lavagne scritte
a gesso e manifesti pubblicitari retrò, i Senators anche quest’anno non
centreranno nemmeno i playoff. It’s a stone. Charlotte mangia un uovo. Ma che?
Ecco dov’era l’auto. Quello non l’ho fotografato. Ce n’era uno anche in bagno.
Il ditino fasciato. Questo è fantastico, sono un fenomeno. Non serve la magia,
la conoscenza è libertà. We
had a car we had time enough to fall in love with. Era questa la strada?
Subito dopo c’era un McDonald’s. Eccolo, non era subito dopo. In effetti anche
rileggendo la Bibbia si capisce. Quebec, donc. Voilà. Et on ne peut pas gagner de l’argent. Questo era il secondo più
breve. Usciamo e ne prendiamo un’altra. L’aeroporto. Lo vedremo alla
fine. E ho bevuto una cioccolata calda. Di qui non ci ero arrivato mai. Ma dove
sei Saint-Joseph? La pista il giorno dopo, stavolta sì, da un ponte, e il flash
di tanti rettilinei negli anni. Le infrastrutture hanno bisogno di essere
rinnovate, in quella che per molto tempo è stata la prima città canadese, e i
lavori sono in corso anche nei tunnel che sezionano non più così impunemente un
centro città che già Google aveva mostrato in spolvero. E il sentore antico si
sposa abbastanza bene con i nuovi palazzi in finta pietra, travaux, encore, e
un approdo facile all’appartamento da sogno, Vieux Port, il ristorante che si
pensava, l’alberatura che pacifica il cuore unitamente a un fugace sole tra le
nuvole in viaggio che vanno e vengono per restare. Profitez de Montreal! La
ruota, la ruota! Il minimal, il minimal! La nave pirata, la nave pirata! Le
finestre, le finestre! Le zucche, le zucche! Faccio il biglietto day and night,
così ci torna poi con suo padre. Speriamo un altro giro! Si gela. Stavolta non
c’era la Bob Clicò. Voglio mangiare il famoso panino con la carne. Non qui! Ci
si butta, fanno la combo. Mercato coperto. Devo fotografare la finestra rossa.
E così il completino per Leonardo lo si comprerà a Parma. La deesse, la verité, a jamais oublié. Et puis, il
faut manger pour s’echauffer, et alors qu’on ne peut pas choisir les restos
bien chèrs, il faut aller dans un endroit magique, la Place Cartier. Nei
negozietti di souvenir la boule già staccata. Persino l’antenato del Timido
aveva scattato qui. C’è un palazzetto segnalato con un giardino che lascia
interrogativi. La soupe, s’il vous plait. Turisti. Rifacimento manto, ecco la
strada delle gallerie, ci alloggeremo ma ancora non possiamo saperlo, il codice
e la rampa, un corridoio a sinistra, il letto a tre piazze e il salottino da
festa privata. Frammenti di un cuore vecchio che pulsa e sta recuperando il suo
charme in fretta. La scelta ovvia è Basilique Notre-Dame, un interno da sogno e
un calesse che riposa al freddo degli uffici da affittare, il primo sentore
newyorchese fu addirittura sulla fiducia. Vado a leggere da Second Cup fino a
quando non smette di piovere. Eclissata, la catena, un nuovo logo omologato
come Balenciaga e Burberry. Speranza? È dir troppo. Dove sono gli impiegati in
pausa sigaretta? Un set fotografico a Victoria, probabilmente dimenticata nella
fretta delle parallele dei pub, le sedie azzurre recenti, il bike sharing
stabilizzato, i passanti a ritmo veloce, una salita prospettica per il Fairmont
meno scenografico, la ricarica del bus elettrico uno zoom per mille vetri in
cielo. Pugnalare la propria controfigura alla schiena, Square Phillips, il
sentore da statua e grattacieli antichi è sempre quello della città
immaginario, rimanere a bla bla bla, Les Promenades, sognare il verde, la
discesa agli inferi, Eaton e un brezel da urlo, il calderone in saldo del
giorno prima della grande festa. E quante istantanee emozionali da eternare, in
un ritorno che scioglie, Place du Canada, scalinate monumentali, profili
eleganti, la sublimazione delle mosse della stagione, i cannoni che fanno
felici i bambini, il cupolone di riserva, i parcheggi sotterranei e gli uffici
postali, Bonaventure, il fiume umano all’orario in cui il business stacca la
spina, Gare centrale e quel funzionalismo che suona sordo all’estetica, AON,
Bell, il parco urbano da innamoramento a primo sguardo alla Gauchetière. Attimi
in cui non si è padroni dei propri sentimenti, il cantiere del nuovo grande
complesso residenziale e i colori del Congrès, la sala di piloni rosa per la
Quebecchina in spolvero, la foto del profilo di Facebook, bandiere di hotel e
stazioni dei bus, backstreets a scale antincendio e profumo di cannabis, la
mancia dell’aperitivo al pub dove si mescolano allegramente nelle conversazioni
le due grandi lingue locali, Youville e i cortili addobbati, Callière e la
riqualifica vincente. Scendiamo. Giacche? Suona uno al pianoforte. Come si
chiama? Stasera agnello. La specialità del locale. La prima sala era la più
bella. La terza la meno bella. Ma qui c’è la musica. Pessima scelta,
l’hamburger. Non era quello che passava. Che eleganza. Il tocco francese del
Canada. Semplice sarà, un sogno che si avvererà. Tra quindici anni tornerò. Un
collega lavorerà ancora là. E stavolta sarò dall’altra parte del fiume, di scenari
industriali similari. Non farò svolte, tra quindici anni. Ma arriverò
dall’altra direzione di edifici in vetro per aziende, il nome quello che
risuona anche ora, Grande Allée Ouest, voi quante volte l’avete già letto
l’originale? Sorprendente questo sequel. Sarà ancora meraviglia, le due chiese
come riferimento. E cercherò il mio alloggio di oggi, non trovandolo. Anche se
gli indizi disseminati nel manoscritto, oltre al canonico percorso della
memoria, punteranno proprio allo stesso posto, minuti persi a ricercare
condizioni inesistenti, un nuovo nome, una sala della colazione che non ci sarà
più, le scale ripide il nocciolo di un problema non risolto. Tra quindici anni
non viaggerò da solo, ma con qualcuno che dopo due mesi dal ritorno riconoscerà
la strada del famoso alloggio. Perché quella sera sarà stata la notte di
Halloween. Ah quanto sogno di passare Halloween in Nord America. Dunque tra
quindici anni ce la farò, c’è da esserne orgogliosi. E non ci sarà più il pub
della mia serata a piedi nudi. Sicuramente no. Anche se passerò tentativi di
laterali impossibili cercando di prolungargli la vita nei miei ricordi. Ma ci
sarà ancora, ovviamente, lo stile francesizzante delle mura e degli edifici
governativi, tra gli scoiattoli e i vigili che multano auto in sosta vietata. E
non dovendo monetizzare ogni attrazione, come nelle prime visite, bypasserò la
Citadelle a favore di un isolato di rarissimo charme, hotel mancati di colui
che oggi mi chiede una boule de neige grande per la libreria del suo ufficio
Zetagi. E per la biblioteca di Davanzati ci sarà a sua volta un Frontenac. Saranno
lontane, lontanissime e quasi dimenticate le suggestioni di quel film che oggi
guida ogni mio passo. Ci saranno gli scivoli di legno, per il bob, che oggi non
potevo minimamente immaginare cosa fossero. E il cortile che oggi ho
attraversato non avrò il coraggio di rifarlo, forse per non vedere la mia
stanza mancata. Oggi ridacchiavo dei pachidati (mia espressione comune,
che suonerà desueta nel 2018), ossia dei lenti turisti organizzati che si
muovono in gruppo. E invece, lo direste, con la meraviglia di mia figlia sarà
funicolare, verificherò, giusto un percorso attrattivo, Terrasse Dufferin, ma
adesso perché non leggo i nomi? Forse perché mi affido a poche fonti santificate,
che invece scoprirò negli anni meritare solo il giusto. Così Le Lapin, rifugio
quebecois d’atmosfera, non può che essermi ignoto in questi tempi di veloce
presunzione, mentre nel futuro anticiperemo i fiocchi di neve e le comitive,
certo non le rare coppie super-informate che in ogni viaggio mi sono state
davanti. E Place Royale sarà il più ovvio dei ‘come se fosse ieri’, solo i
punti cardinali invertiti dalla memoria calante. E Il trompe l’oeil non c’era,
questo (che) sicuramente. Non c’era nemmeno la pioggia, gelata, a mettere in
fuga le comitive in anticipo nei luoghi storici dimenticati dall’attualità. E
se oggi risalgo di suggestioni scozzesi, così portuali, così autoinflitte, tra
quindici anni mi perderò di varie attrattive sacrificate, piazze, chiese,
vicoli, finestre colorate, soprattutto laterali da cuore che batte. E se oggi
non mi fanno entrare per i vetri, un giorno non entrerò per via di una
minorenne. E se oggi accelero e torno sui miei passi, un’altra volta mi perderò
a cercare mute ricordo dei Detroit Red Wings. E se stasera ceno, prima di un
calesse che non ricorderò più dove fosse, sarà proprio quello, il percorso
della memoria più evidente, non cortili ma stanze, piatti chiaramente indigesti
laddove un simpatico cameriere regalerà caramelle ad Halloween. E quante strade
antiche ancora ho lasciato inesplorate, lo sapranno, i miei due alter ego? Figlia
mia, sei vittima. È colpa mia. Maestra, quest’anno vado a fare dolcetto
scherzetto nelle case. Eppure cosa c’entra la neve, uffa! La neve è a Natale,
non ad Halloween. Per fortuna ha smesso. Che brava la mamma, il mio trucco è
proprio bello. Devo uscire assolutamente senza giacca per non rovinare il
travestimento. Chiediamo un ombrello in prestito all’hotel. Fantasma, non
zombie. Qui faremo colazione domani, dice papà. Sì pero, cosa mi interessa
quale era il suo hotel! Un signore ci suona mentre attraversiamo sulle strisce,
che strano! In una chiesa vendono dischi. Pensate se fosse una pizzeria.
Eccole, le villette. Sono timida. Non so parlare. Attraversiamo. No. Non me la
sento. Non ci sono decorazioni. Là sì, però non me la sento lo stesso. Uffa,
adesso non farmi la predica che non suono alle case. Vado qui al bar. Dai.
Trick or treat? Non capiscono. Des bonbons, s’il vous plait. Oh! Ils n’ont pas
de bonbons. Eh, meno male che ci siamo mossi per tempo. Qui non è ancora buio.
Andiamo in un altro quartiere. Ed è magia! Quanti bimbi per la strada, tra le
auto. Ogni negozio ha la zucca esposta. Quasi. Saint-Jean, papà diceva che ci
sarebbe stata tanta gente. Farmacia. Entro e non dico niente, tanto c’è pieno di
bambini a cui danno le caramelle. Ristorante. Cartoleria. Supermercato. Negozio
di alimentari. Bello. Adesso però le zucche sono finite, ma il mio calderone è
quasi pieno. Passiamo di fianco a un teatro. Papà non si ricorda se era là, il
suo pub. Passiamo le mura. Siamo di nuovo dove eravamo prima. Qui c’è un altro
simbolo. Ma qualche negozio che ce l’ha c’è. Qui i bambini sono già passati, è
tardi. Devo per forza parlare. Des bonbons, s’il vous plait. La birra, sempre
la birra. Ma quante caramelle mi hanno dato qua? Una coppa da cui poter
scegliere. C’è ancora il terzo giro. Di corsa nel negozio degli addobbi di
Natale. Tabaccheria. Dove sei nonno? Articoli sportivi. Ora metti la giacca!
Uff, va bene. Zucche! Un ristorante! Ecco, è stato l’ultimo. Ma è stato
bellissimo. Mangio patatine fritte. Papà una tourtière. Piove. Joyeux
Halloween! Forse ce la faccio, adesso. Penso questo mentre scendo un viale nel
parco, che, no, non ricordo. Il ponte per forza. C’è solo un ultimo riferimento
da superare, quel gufo né semi addormentato né ubriaco, ma che fa semplicemente
l’occhiolino. Come mi ha fatto chiaramente capire mia figlia. Deve essere
andato, non l’ho visto ma posso respirare, inizia un nuovo miniviaggio, le
Province Atlantiche (amato feticcio). E infatti il Quebec non ha più nulla da
aggiungere, perderemo un’altra ora, solo cottage e cartelloni pubblicitari per
una Riviera del Lupo che non si materializzerà nemmeno questa volta. Ed è
subito New Brunswick, con le foreste che caratterizzeranno tutto il paesaggio
di questo stato misconosciuto. E com’era semplice, amare e sognare, guidare per
ore su di un confine invisibile, senza altisonanti ‘bridges to the USA’, solo
una strada sbarrata come un binario morto di una ferrovia, nubi basse che si
confondono con le emissioni di una fabbrica, cartellonistica di shopping in
dollari, distanze stradali che misurano lo stato e la provincia, senza
convocare i giganti appesantiti di rispettiva appartenenza. Fredericton,
apparizione, gli hotel periferici che furono la causa della scelta, una rotonda
e una radio locale dove un pedone può solo significare incidente in corso,
l’anima commerciale di banche e supermercati a proteggere un limbo verde di
magnifiche case in legno, l’attualità di giardini e decorazioni, il passato di
fronte strada, tetto spiovente e colori sgargianti, e intanto qualcuno compra
calze natalizie in un negozio dove il bilinguismo ufficiale della provincia
(votato nel 1979 da un primo ministro francofono) non è messo in pratica. Piccola
capitale, grande serenità. Il reticolato tra la King e la Queen di ovvie
origini mai celate è una passeggiata per Catalani marittimi, tra insegne
colorate, birrifici indipendenti e una serie di proporzionati edifici storici
in mattoni, un ponte in legno e un faro per una foto ricordo, foglie gialle giù
e festoni celebrativi permanenti. New Maryland, nessuno potrà dimenticarti. E
per una volta il trasferimento è così breve che ancora non abbiamo capito se
poi alla fine il tappeto volerà, Reversing Falls è una visita in un orario di
curiosità intermedia, il flusso a svuotarsi di un belvedere che si intravede,
il vuoto in vetro così cool del momentum, sedie arancioni e uno speech da
mimare al microfono, la storia della città e il fenomeno naturale unico al
mondo che vale la gogna mediatica delle due stelle Touring, il braccialetto
giallo e le collane per le diciottenni ormai diciannovenni. Saint John, non
Saint John’s, evidentemente. Terranova resterà chimera, qualche targa
malinconicamente intravista nell’ultima domenica di traffico. E Stoccolma torna
alla mente nel profilo slussenato ma non sgraziato della città portuale, persone
incollate alle panchine, il gigante marittimo della nave di crociera bostoniana
che si appresta a salpare, i passeggeri già tutti a bordo delle strade deserte
del centro, un isolato da circumnavigare dei sensi unici della pioggia e
dell’adunata per la scuola superiore, it doesn’t seem very promising. Jim
sorseggia vino e prepara lettini nella stanza angolare della villetta Psycho
style, un quartiere tranquillo dallo charme infinito di mattoni anneriti e
portoni arrugginiti, alberatura di un decennio abbondante, altri b&b sparsi,
un barbiere al lavoro nel silenzio della massoneria, tra i beggars accampati fuori
dagli archetti dorati, le ultime attività al mercato del pesce dai battenti
serrati, le luci spente delle villette nel quartiere degli avvocati, la spesa
al liquor shop di qualche tappo random, vino di Dragasani, Inniskillen e poco altro
spazio alla celebrità locale corretta con il brandy, prima che Billy e la sua
raccomandazione offrano luci soffuse, tavolate chiassose e coppie di turisti
danarosi oltre cortina, il lobster roll come da manuale. Marmellata. Il post
del Cavagnacco era stato illuminante, e, despite the tension, il parco
nazionale offre strade deserte di segnalazione sentieri e fiordi, Fundy di asfalto
bagnato, Alma a cui non pagheremo più bonifici, pompe di benzina di
quotidianità gioviali, la nebbia che nasconde l’altra costa, Hopewell Rocks
solitarie di fango e scatti col telefono di un diario Facebook rigorosamente aggiornato.
Si preannunciava difficile, e difficile fu. Arreso, da subito. Meglio un
puntino blu. E così è Downtown. Egg nog. Latte. Enjoy fall. Moncton, il cielo
plumbeo e i sottopassi. C’est la vie. Balla per me. Balla per meeeeeeee.
Elmwood e le lapidi. E il bigino che ci ha raccontato tutto è già pronto a farsi
da parte per accogliere un’altra microbandiera, le querce di Edoardo e il
solito leone rampante, il Kent e il 1964, il ponte nell’oscurità totale del
mezzodì di una perturbazione inossidabile, Welcome to PEI. Che bello, fermati.
Rallenta, faccio una foto. Finestrino giù, entra l’acqua. Papà! Summerside,
l’ordine e la civiltà in un fermo immagine, il tractor che nessuno supera sulla
strada di Kensington, un’isola da sogno, colline e isolamento, la parrocchiale
protestante, closed for the season (very obvious), una collezione di casette,
food&drink, i barn di Malpeque espressione di un’arte innegabile, Anna dai
capelli rossi che non conquista di episodi in cui parla troppo, e il pub
insperato, la pietra miliare di zuppe per soste bagnate, panchine in legno,
lavagnette, rafano. C’è un Borato fermo, non siamo noi. Cars for sales. Allora
cosa dici andiamo? I voli costano. Milton Station, c’è traffico. Concediamoci
completamente al percorso. Anche qua le elezioni? La vita è ciclica, avevo
dimenticato le mie stesse lezioni. E così Charlotte è arrivata nella sua
cittadina, di università e aeroporti, di villette vittoriane all’ombra di Inn
secolari, edifici gemelli di stanze a motel, piazze verdi quasi incolte, hotel
di lusso che qui sì avevano la piscina e gli accappatoi, deli e fumatori in
strada del Friday night, un panorama lacustre-marino che richiamerebbe altre
adorazioni passate, se ci fossero le condizioni meteo per vederlo.
Charlottetown, avete fatto proprio un bel giro. E se Ottawa vota il miglior
gelato, Milano non prova. Ma il pigiama vessillo nazionale si porta a casa,
nella misura sbagliata, mentre lavori in corso opacizzano la solennità della
sala della grande unione, parcheggi a più piani, fermate del bus, il museo e la
Province House funzionalista che stacca dal mattone marrone circostante, Sydney
e il blu, Water e l’arancione, il rosso e il blu del Fish&chips, un negozio
dedicato alla Green Gables, statue di un percorso per bambini, il Pho bo e i
lampioni, perlustrazione avamposto di sale eleganti e l’eterna sfida carne
contro pesce. Anziani. Faremo una colazione a due. Con la scelta di un main. Al
bancone c’è la vodka di Terranova. Compiti o doccia? E l’oscurità sarà un giro
a vuoto in un centro commerciale dal difficile orientamento, il riposo sereno
di un locale di pesce, la tranquillità delle laterali, l’ombrello grigio da
lasciare sulla porta, le cozze rubate dal mago, il plateau che scatenerà
applausi forzati e invidia, ostriche che hanno trovato casa, il granchio
persino un filo più buono della sublime aragosta, Row House, ci ricorderemo di
fare la recensione entro un anno? Mi sembra di essere via da un mese. Anche a
me, in coro. Eppure quando le lancette suoneranno la sveglia, ad Halifax, holy
shit, we came from Vancouver, si cercheranno suggestioni di scivoli infiniti e
finti hotel dove soggiornare, gli ultimi scatti di una timidezza a volte
premiata, il ponte simbolo della squadra di calcio, l’ultima sosta rifornimento
a meravigliarsi ancora di tutti i prodotti colorati del mercato nordamericano.
Siete stati anche in Scozia? Ma no, forse in Nuova Scozia, vero? Halifax l’avevamo
già vista, rocce e foreste, un caffè omaggio ogni 20 dollari di carburante,
rocce e foreste, l’uscita 2 e la discesa rapida, rocce e foreste, il bivio per
la meta più turistica, rocce, foreste e fiordi, il sogno di una penisola
incantata sino all’approdo quasi islandese di Peggy’s Cove, il faro e il
ristoro dei gitanti, i ciondoli nei corridoi aeroportuali di un’ultima poutine,
le sedie colorate e i magneti per Franco, gabbiani, rocce e foreste. E il
tesoro maledetto? Caso volle che. Aspetta, aspetta. Canada? Ma dove è questa
Oak Island (Ooc ailan)? Non ci credo! A pochi chilometri da dove saremo
l’ultima notte! E così è uscita, sonno latente e manifesto, navi spagnole e
carichi sepolti, budget per perforare, pezzi di legno e fango, due fratelli che
non si arrendono, monete e cannoni, schiavi e paura, buche e resort, do not
proceed unless you are invited. Nei miei sogni parlo, e la mamma risponde. Il
giovedì sera va scemando. E se il roll costa solo 9 dollari, allora fermiamoci,
oppure no? Ecco un altro dei posti più belli del mondo, cosa abbiamo da fare?
Che scandalo, i Massacre mai. Gli Heart solo una volta. I Rush un paio. Ecco i
canadesi. The Famous Three Churches. 1000 abitanti e 6 consiglieri. Una sosta
controvoglia nello sterrato del ruotino, di un cuoco aitante a 30 dollari e
zuppe di pesce, libri da scambiare e timoni colorati, all’ora di un pranzo che
per qualcuno è già cena (autocit.). E l’unico pub della città dell’UNESCO era
lontano, il timore degli ottanta chilometri all’ora, il soppalco dell’ultimo
set, il rosso dei magazzini portuali, la balena che inghiotte bambini, il pesce
d’obbligo del sabato sera, Lunenburg, qui almeno all’originale qualcuno (forse
per sbaglio) ha aggiunto una N. The oldest part of the city. I parchimetri
d’epoca. Gli alberi qui quasi spogli sul limitare della collina. E il vento che
trascina i parapioggia. Viola, verde, giallo. Blu, arancione, rosa. Sunny tomorrow. I think I
said it all. Et puis quoi
encore? Ah ouais, bien sûr. Alina va lire le Canada, quand elle revient,
revient du Canada. Peut-être.
mercoledì 19 dicembre 2018
Horrorland/The Hoarder
Sceneggiatura 6: l'intreccio semplice di giallo classico (spoiler: la regola resta sempre 'il colpevole è l'unico che non hai visto morto') con tinte horror di bocche cucite porta a termine un'ora e mezza di intrattenimento dignitoso.
Scenografia 5,5: un taxi giallo in un flash iniziale che resterà l'unico esterno della pellicola, corridoi molto motel-like dalle claustrofobiche tonalità verde acquamarina, depositi di oggetti di matrimoni da divorziare.
Cast 5: Mischa, ti preferivamo adolescente dalla sessualità incerta, oggi sei appannata nel tuo spavento irreale di un mondo chiuso nella NYC aperta 24/7.
Regia 5,5: nella stanza dell'autoinfliggimento le idee non possono essere originali, la resa che varia da scena a scena senza mai precipitare, un paio di spaventi e altrettanti omicidi originali, e questo è evidentemente quanto per una produzione senza budget.
venerdì 30 novembre 2018
Letteratura contemporanea/Cooper
Catalogare è difficile, il genio invocato si camuffa da imitazione e dissimulazione, lo scorrere violento delle pagine abbandona famiglia, amici e amore a un solo calderone di dimenticanza permamente, l'escamotage letterario di una trama facciata a cadere definitivamente con la metaletteratura finale di incubi permanenti mai scacciati tra rupi, fulmini, lupi, treni della metropolitana, violenze sessuali e incidenti stradali. Incompiuto, diremmo, se non fosse esattamente l'obiettivo del buon Douglas. VOTO 7
mercoledì 14 novembre 2018
Letteratura contemporanea/Atwood
L'incipit scrupolosamente storico e gli sviluppi parzialmente di fantasia, la CBC e Netflix, l'interesse e la lunghezza di una miniserie, i piani narrativi d'abitudine sfalsati da flash-back e racconti, due storie d'amore sulla carta, la potenza evocatrice di una figura volutamente dubbia (da cui l'alias malamente tradotto in italiano). Lento, troppo, l'incedere elegante. VOTO 6,5
lunedì 15 ottobre 2018
Cinema francese/Happy End
Sceneggiatura 7: la libertà di poter scegliere, l'ostacolo-dramma che prende forma e si manifesta in ogni aspetto della quotidianità, la carenza di sentimenti in between che sospende giudizi sul modello perfettamente sbagliato di famiglia e società.
Scenografia 7: Calais di poche street immobili, una carrozzina e le insegne commerciali, appartamenti vuoti, ristoranti sul mare e periferie di condomini rosa, il cantiere del crollo in diretta.
Cast 7,5: una 'famiglia' ben orchestrata nella mediocrità sublime della contemporaneità, dal grande vecchio immobile alle nuove generazioni distratte di una superficialità apparente, passando per l'ennesima grande interpretazione della Huppert.
Regia 8: lampi di classe ad intermittenza ed autocitazioni, immagini nitide di grande cinema (il pugno ai margini della scena, lo scivolo lento, non inesorabile, verso l'acqua), dialoghi di una trama che si intuisce per puzzlizzazione.
Letteratura contemporanea/Munro II
Storie di intere esistenze che scivolano in migliaia di atti ripetuti e poche svolte improvvise non comprese, un bonario pessimismo quasi compartecipe delle disavventure amorose di protagonisti il più delle volte paralizzati dalla propria ignoranza, il consueto spettro temporale che va dai '20 agli '80 del secolo scorso, la provincia dell'Ontario a dominare sulle altre location canadesi. Bambine morte annegate, amanti sul treno e in stazione, un matrimonio che non si farà più, un padre padrone e una moglie schiava, nerd antelitteram di fatture ed eredità, minacce sepolte da una gamba zoppa, un amore che si consuma tra i letti d'ospedale della grande città. VOTO 7,5
lunedì 1 ottobre 2018
Letteratura contemporanea/Munro I
Quotidianità canadesi di esistenze che sfugogno dalle dita, un'unica donna che accomuna tutte le protagoniste più o meno sfortunate di racconti intensi e coinvolgenti, lo stile che mescola passato e presente, prima persona e terza persona, distaccamento da autrice e empatia da personaggio, l'arco temporale ad abbracciare l'intervallo dai matrimoni combinati degli anni '20 sino alle comunità religiose degli '80. Treni che investono persone, ceneri di adozioni offerte al fiume, cadaveri mangiati da animali, amanti di una notte uccisi da un palo, gemelli sordomuti a chiudere la porta in un caleidoscopio di eventi bizzarri come la vita. VOTO 8
lunedì 17 settembre 2018
Cinema canadese/Barney's Version
Sceneggiatura 6,5: fedeltà ai limiti dell'estremo (solo il whisky scorre più lentamente nel proibizionismo cinematografico, n.d.b.), il pregio e il fascino del testo richleriano, senza voli pindarici o esperimenti da cinepresa.
Scenografia 6,5: Montreal che si palesa in pochi attimi fugaci (il cimitero sulla butte finale il più pregnante, n.d.b.), foliage canadese e note cartoline da Roma e New York.
Cast 7: due assi nella manica, lo strepitoso ebreo non osservante Hoffman e un Giamatti (troppo giovane nell'invecchiamento dell'Alzheimer, n.d.b.) anima perfetta del protagonista dissacrato.
Regia 6: Lewis, carneade da cassetta nordamericana, la messa in scena minima di tuffi nell'acqua e misteri malcelati in un finale affrettato, la centralità degli attori in quadretti mutuati.
Letteratura contemporanea/Pulixi
Dramma futuribile di kamikaze islamici e radici di radicalizzazione (in)sospettabili, il razzismo come linea piatta di fondo tra le operazioni della 'ndrangheta. Il tratto semplice che delinea personaggi in divisa sempre universalmente simili. Una Milano bellissima tra lustrini e periferie fatiscenti, in una conoscenza dei luoghi 'sentita' e più che approfondita. 'Milano diventerà la New York d'Europa. Scherzi? Diventerà meglio.' VOTO 6,5.
venerdì 7 settembre 2018
Letteratura contemporanea/Dicker III
Saggio è il ritorno, la via maestra spianata a prevalere sullo sterrato di un tentativo (Baltimore, n.d.b.), in bocca a uno dei suoi personaggi l'autopunizione del penultimo livello prima del romanzo rosa. Dicker si autocita in maniera spudorata, dall'ambientazione al narrato spezzato in flash-back e più voci narranti, tutto ricorda da vicino Harry Quebert. Eppure la storia appassiona e svela pagina dopo pagina la malattia universale della provincia e della condizione umana, la rosa di sospettati a estrarre dal cilindro una tabula rasa quasi christiana in un teatro sperimentale del colpo di scena rimasto in canna. VOTO 8-
lunedì 27 agosto 2018
Letteratura classica/Richler II
Pout-pourri passionale di incipit autobiografici nell'ebraicità proletaria post WWII, contorni di regole e origini storiche, l'appiattimento che si consuma velocemente tra aneddoti di tornei inglesi e minibiografie dei giocatori più famosi. Testimonianza. VOTO 6
mercoledì 22 agosto 2018
Letteratura contemporanea/Gimenez Bartlett
Prolificità da indagini per due commissari, la castiglianità della città dei single, intreccio semplicemente accattivante di pochi sospettati tutti colpevoli, un ospedale semiperiferico di suggestioni notturne e fughe brevi dalla prosaicità delle lettere di addio. Mix classico di genere tra indagini e vita poliziesca, tra i più riusciti di una nutrita pattuglia mondiale. VOTO 7
lunedì 13 agosto 2018
Horrorland/Hereditary
Sceneggiatura 8: la casa delle bambole dell'orrore, la proiezione nel reale del subconscio, l'invocazione del male dominante, prismi di normalità aberrante, la possessione come fuga da un mondo di paure. Classico immediato degli anni a venire.
Scenografia 7: locations che valgono il viaggio, pochi respiri di una narrazione stanca, la strada troppo buia dell'incidente, una casa sull'albero costruita su misura per il film.
Cast 7: lo spessore della Collette richiama grandi interpertazioni di pellicole collegate del passato, la cartapesta di Byrne brucia, la Shapiro è l'emblema di una creepy side che non può realmente prendere possesso di uno stanco Wolff.
Regia 8: apparizioni citazioniste, decapitazioni angoscianti, sedute spiritiche che prendono fuoco, una cinepresa che spesso accarezza il sogno del piano sequenza in illusioni ottiche realistiche ed estremamente ben focalizzate. Un debutto da annali per Aster.
venerdì 27 luglio 2018
Letteratura contemporanea/Postorino
Storia vera romanzata, l'amore ai tempi delle SS, il punto di vista insolito dei tedeschi pro regime per forza, semolini come opere d'arte e partite di latte avariato. Storie d'amore e flashback che si intrecciano a spezzare la monotonia di una quotidianità immobile, il percorso della WWII plausibilmente percepibile tra tane del lupo e cieli sgombri di aerei nemici. Introspezione abbozzata, l'elemento estraneo ebreo a insinuarsi come verità evidente malcelata, lo stile fresco e piacevole del filone rosa (non a caso il nome della protagonista, n.d.b.) storico. VOTO 6/7
giovedì 26 luglio 2018
Horrorland/Truth or Dare
Sceneggiatura 5,5: l'intuzione di Calux un cult a prescindere, il gioco infantile di un inferno in videogame, rametti secchi di cause religiose e santoni a predicare penitenze.
Scenografia 6: Rosarito nome esotico springbreakiano dalle movenze losangeline, fughe in auto vecchie di qua e di là da un confine immaginariamente reale.
Cast 5,5: una coppia scoppiata sin dall'abbinamento delle attrici, sopravissute alla mattanza a perorare un seguito globale di YouTubers, alcolismo e omofobia nella contemporaneità del tutto.
Regia 5,5: un paio di spaventi e la deformazione al computer dei volti, pause da copione e una serie di uccisioni sacrificate alla sottotrama dell'amore-odio adolescenziale femminile, il regista commediografo e i toni in sottofondo.
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