mercoledì 19 dicembre 2018

Repliche/Canada


ALINA VA LIRE LE CANADA


 
 
 
 




L’aeroporto è quello che chiuderà, e la nuova copertura bianca inaugura, ma a qualcuno non interessa, e qualcuno non si ricorda. L’allarmista che è solito rilassarsi con un caffè in questo stesso terminale (due ore prima dei suoi brevi voli) non ci aveva visto giusto, ed italiani che sanno cose ma vanno in un’altra città della nostra stessa meta guidano la corsa verso l’ascensore nel transito effettivamente breve che non lascia nemmeno il tempo per un brezel, nemmeno il tempo per la consueta birra propiziatoria. Le chiacchiere già english speaking di chi si cautela con una fiaschetta in mano scivolano rapide di controlli ETA, e il Dreamliner comodo e possente solca i cieli artici dei terrapiattisti, i finestrini che saranno presto sostituiti da telecamere oscuranti per le dieci ore dieci di intrattenimento diurno, i migliori bar del Canada e le aziende milanesi di piumini le grandi attrazioni di un magazine che ruba la scena ai film disponibili sullo schermo individuale. Vancouver, ebbene sì, questa era la nostra destinazione, British Columbia (but not only) here we come, 17 giorni da introdurre nelle macchine dei visti automatici, totem e maschere native ad agghindare i corridoi, le formalità doganali estremamente ridotte e compassate, il sole di un’ora dopo la nostra partenza quello di strisce pedonali e street food giapponese, la Wolfsburg edition targata Ontario già in attesa del nostro drop off epocale, only automatic e lettore cd che impone subito Baghdad a scapito delle radio locali. Uno svincolo e poi sono i lenti semafori della 99 a introdurre a due viaggiatori su tre i concetti base della periferia del Nord America: case basse, vie commerciali, reticolato regolare, quartieri di villette nel verde, bellezza e squallore a convivere fianco a fianco, in un panorama reso magico dal famigerato foliage che tanti mancarono, quando già Fairview lascia intravedere l’altro lato della medaglia, la Downtown di grattacieli, condos (fenomeno recente altrove ma già più che preponderante nella città asiatica del Canada), edifici polivalenti e alberatura random. E’ charme, non siamo in carcere, nessuna nuvola per la nostra stanchezza da dissimulare, il garage at the back che riporta subito suggestioni mai sopite, Raincouver non la vedremo ma qualcuno troverà occasione di goretexare la marca di grido locale, le elezioni locali alla tv, la Nikon ansiosa a scattare in verticale frammenti di finestre, gli hotel lussuosi e le boutique troppo danarose di una Robson mai vista, Burrard e l’hot dog della bambina che bigia la scuola, chiese in mattoni e vetri azzurrati. Chi ci precedette, pareri diversi ma uguali, l’entusiasmo quasi obbligato che scema con la nostra valutazione del Waterfront, ombra di attrazioni da bypassare, streghe di un Halloween ancora minoritario di paillettes a tarda sera, panoramicità sacrificata di vele Canada Place ed esplicativi, catene ingombranti di posizioni strategiche e porto industriale cantierizzato. Quando si cambia quartiere fioriscono i souvenir shops, sciroppo d’acero e giubbe rosse d’ordinanza, ma Gastown ha l’atmosfera pacata e rilassante del più bel district vancouveriano, mattonato storico e piante ad abbellire, moda e arte, pub rigorosi di leggi statali e bar tolleranti di un Friday night già frizzante di pomeriggio. L’unica notte di fuso regala pochi attimi solitari prima di un tramonto da studiare, l’aumentare di beggars per chilometro quadrato attorno alla Chinatown di classiche, prospettiche porte d’ingresso, l’odore di una cannabis legalizzata da due giorni preponderante nelle backstreets di matrimoni, la visita guidata degli eventi curiosi presso il nostro alloggio, il servizio lento degli indiani a far cadere la preferenza non studiata su The Keg, marchio di festività e bar completo, signature dishes e kids menu onnipresenti, l’amara certezza di mance preimpostate dagli istituti di credito e tasse corpose da aggiungere a parte. Colazioni americane a intermittenza, waffle corpose e tazzoni di percolato, affollamento del sabato e preferenziali di mappe rigorosamente Google in modalità offline, per Stanley Park è amore a prima vista e non potrebbe essere altrimenti, il trenino dei piccoli nascosto alla vista assieme all’acquario di repliche valenciane, i totem leggiadri e colorati di soste cinesi di prima mattina, l’apice dell’autunno nei tre colori delle foglie, jogging mattutino lacustre, Lion Bridge eterno di campate e prospettive desiderate di North Vancouver. Capilano è la quintessenza delle attrazioni del continente, pennoni e bandiere, code disciplinate, prezzo a prima vista esorbitante, parcheggio curato da pagare contactless e paperless, percorsi alternativi che rendono il barcollante ponte sospeso sul canyon solo una delle tante cose da fare, nella fiumana di turisti che comincia ad affollare le case sugli alberi e le montagne di zucche decorative di ragni giganti che spaventano i più piccoli. Le consuete curve della memoria di un cervello senza caffeina si dipanano tra legno bianco e qualche macchia arancio e nera, Edgemont Village di bandiere e urbanistica quasi elegantemente regolare, il serpentone della 1 in un debutto impersonale di traffico e foschia su ponti lontani nel tempo e nel valore, il canyon gratuito di Ganni un’uscita da non prendere, Hastings ancora villette di una classe sociale inferiore, la portualità e i manifesti per molti candidati sindaci, uomini cartello e birrifici, concessionarie auto nelle inevitabili wastelands di 250 gusti di Casa gelato, un rosa dipinto e generazione settima, la cheesecake alla zucca che ancora grida il suo rimpianto di piccoli cucchiaini ai gettoni verdi e al dragonfruit di gomma. Granville Island è la meta del sabato pomeriggio di turisti e autoctoni, code in ingresso di svincoli da indovinare e case sotto i piloni, il parcheggio in fondo all’ultima speranza, il paradiso di dettagli architettonici minimalistici, vinerie e saggina, whiskyteche e riciclo, teatro spontaneo e code di artisti, il pub dell’hamburger di pesce con birra rigorosamente prodotta in loco, listelli di legno colorato, le foto ricordo nella baia, il mercato icona del cibo in un addio già consumato alle palle museali e ai piloni sportivi, lunghe attese tra puzzle commemorativi di destinazione prossime e slime dalle mille forme e colori, trucchi per il bianco e per il nero, la realtà virtuale da tralasciare. Capra! E poi sì, siamo riusciti a farci servire acqua (gratuita) senza cubetti di ghiaccio in Nord America. Che stress! Sono le quattro e mezza di mattina in questa stanza buia. Cosa ho dimenticato? Cosa dimenticheremo? Caricabatterie, magliette, beauty case? Guidare col buio, i fari che abbagliano stancano, ma fermarci non possiamo, o perderemo l’aereo. La strada è già fatta, e aiuta. Addirittura un pezzo a piedi, poi il tratto portuale e con la foglia d’acero e il numero non si può sbagliare. Si ascolta il padre o no? Dietro dormono, di fianco no. Le chiavi ancora non hanno causato drammi. Al mio ritorno devo fare Hi-tech. Di weekend non arrivano email. Profumo di cannabis che entra nell’abitacolo. La città deve essere finita. Nebbione. Calatrava. Che flash! Ecco che comincia una lenta alba, il profilo delle montagne basse circostanti. Speed Limit 110, great. Uscite laterali chiuse e un cambio direzione inutile. Le deviazioni di chi ha avuto tempo (o l’ha sprecato?), i vini dell’Okanagan, i ponti dei confini con gli USA, parchi nazionali accessori. E la luce. Wikigenia sa anche che Kamloops si poteva raggiungere in 4 ore, e così è stato indubbiamente fatto. Chevron e una foto che diventerà un resoconto, un disincanto aleottiano davanti alle sfide perse, le patatine Old Dutch in tanti gusti per palati esigenti solo sulla carta, un espresso versato e il beverone starbucksiano che sarà il must quotidiano del guidatore folle, no second driver, che i coast to coast della vita si ascrivano a un nome solo. Anche il risparmiatore alla fine ha mollato, e certo come pensavi che qualcuno potesse restare da solo per così tanto tempo? La 5 è più stretta, aici foliage s-a dus (s-a dus de mult), Clearwater la provincia universale che può atterrire, rocce scavate e case blu di bandiere commemorative, Blue River un sorpasso in regime di lavori in corso di un cartello che raddoppia la multa, poi Valemount il riposo già memorabile dell’area protetta, un gadget di una collezione difficile Ty, tetti azzurri e il Mount Robson come profilo amico. E poi il vuoto che nessun Google Maps metaletterario potrà colmare, l’attenzione già focalizzata sul feticcio di Fil.ippo e della Lonely Planet, la casetta del pedaggio di ingresso, Jasper, nome mitico di itinerari deviati, un lago a forma di ferro di cavallo che nemmeno la segnaletica orizzontale, tronchi secchi e la porta che non si chiude, bestemmie, l’intuizione del capitano di bordo non graduato, la rinuncia degli orsi, ho visto un animale, e allora proviamo la corsa, niente canyon, Edith come Annette, il riflesso il valore aggiunto delle berline con bagagliaio gigante. E sì dai che ce la facciamo! Le auto si muovono solo nella direzione opposta alla nostra. Straniamento dovuto, ma l’avevo letto. Visto, anzi. Ma la neve non c’è? Il Medicine delude di pozze di fango. L’acqua si ritira fuori stagione, proprio come le attività commerciali (persino le colazioni negli hotel) di questa landa unescata già nel 1978. E alla fine il ghiaccio è solo un piccolo lastrone, i piedi nudi in letargo per tutto il viaggio, e si sprecano selfie e foto ricordo mentre qualcuno cerca di parificare il numero di scatti deliranti tra fari di pick-up DOP e legno nel Lake Maligne (due stelline per Carolina e Alina) avaro di traversate. Arieti, cervi e alci colorano il tramonto stanco dei 900 km, l’opzione più prevedibile diventa l’unica percorribile al gelo delle catene che imitano le costruzioni di montagna della zona, Alberta, quasi quasi ci dimenticavamo di essere da te, le tue bistecche, la tua targa bianca e rossa, la tua bandiera blu, Inn una magia in un cortile di un motel, recensioni Tripadvisor, lingua tedesca e poutine dell’uomo ricco, Taste Atlas la chiave di lettura di una cucina canadese che ‘non è raffinata come quella italiana o francese’ (cit.). E una bottiglia di vino dell’Ontario, che oggi era pur sempre la data indimenticabile, falcidiata dalle altre più imponenti ricorrenze del viaggio. La macchina fotografica di Charly è già nella spazzatura, il meccanismo di apertura della lente non ha perdonato. E Altitude di Air Canada è ancora in camera nostra. In Via Adorni qualcuno si sveglia e sa di avere una giornata vuota davanti a sé. Boschi consolerà con un buon salame di Felino. L’ora noi l’abbiamo già persa, e nel freddo di un mattino buio la stazione di servizio regala costose colazioni in dollari canadesi, carne secca ad interi scaffali, muffin non così onnipresenti come si poteva pensare, Tim Hortons col logo vecchio giallo e nero, il solito mix di caffè ed energy drink per vincere il terrore della neve, le stelle da colorare di giallo portatrici di speranza, 288 km di una strada nota in tutto il mondo, Rockies, Icefields Parkway e un dettaglio di cartina, la prima sosta ad Athabasca Falls tra i cartelli di pericolo e le statistiche sui selfie mortali, poi la consapevolezza di un’altra giornata di sole fortunato. Si piange di nervosismo perché non si riesce a fare un brano a pianoforte. Che bello! Questa strada è stupenda! Dove sei Luigi? Devo chiamare i miei, è un po’ che non li sento. Uno. Due. Tre. Quattro. La gioia per aver finito con le luminarie in cantina. È quello? No. Sììì. Ma è chiuso? Torniamo indietro. Sì è chiuso. Closed for the season. La passeggiata sospesa sul vetro con vista panoramica sul ghiacciaio, nel punto più alto della strada. Fa freddo. Una foto che non rende. Sono contenta. Il passaggio da un parco nazionale all’altro lascia inalterato lo scenario. Qui Giovanni può fare tutte le camminate che vuole. Era vicino, chissà perché non è venuto. C’è un lago dove si fermano tutti a fare le foto. E poi un altro. E un altro ancora. Cosa vuol dire Lake? Lac! Forza! Veloci che voglio tentare il Moraine. Il sito del parco nazionale era lapalissiano. E così è, maledetti. Closed. Ma ci si può arrivare. Sono solo 11 km. 11 km all’andata e 11 km al ritorno, con un bambino che non cammina, nella neve. Sei fuori? Lake Louise (formerly Laggan) ha il respiro della villeggiatura di un tempo, a partire dal gemellaggio con la cartellonistica disneyana, il consueto hotel della Fairmont di quando si sognava Whistler, un parcheggio enorme di premi JOM, le mappe dove scattare foto nella neve senza la prova del crimine, una refurtiva rosa che cadde nella trascuratezza di uno zoom, di un ‘lascialo in macchina’, di una scrollata di spalle, e la riva ghiacciata fa il paio con il versante di pini e ombre, il riflesso ancora una volta valore aggiunto di uno scenario montagnoso da vera cartolina Explore. Così giunge l’ora della splendida Banff di Natalia Milazzo (non quella cupa dei Bianchi), turistica il giusto tra un binario di cala ferata e una giovane coppia che si selfizza davanti all’orso in legno dell’ingresso in città, Aspen esiste, Lodge no, e la responsabilità spesso collegata a una risposta tardiva non ha colpe tra i cassetti aperti dalla donna delle pulizie, l’anello del basket di una vittoria in sirena su Eurosport, il tabellone desertato del WTA, la sosta impossibile di chi sa che la luce non durerà a lungo tra i tetti a punta di ogni sogno nordamericano, il B&B e la cena senza passare dal via. Il toponimo scozzese lascia sempre l’amaro in bocca, ci si chiede perché non si provveda a trovare un toponimo delle first nation, ma sicuramente qui c’è Dollarama e non la Tesco, e l’importanza del luogo ha largamente trapassato quello della località originaria, proprio come per Perth, Australia e i suoi anolini di Natale a 34 gradi. Terra di rugby nella landa dell’hockey, il lacrosse passato inosservato, steakhouse pregiate e palle di neve di località limitrofe, papà chiede un pub, la passeggiata sul fiume al ritmo dei club privati, negozi monomarca di tutti i giganti della neve, il triangolo di legno, l’alcool confinato nei liquor shop e la cannabis nei supermercati, compagnie miste di giovani e tardo giovani, la sala delle bandiere un buon compromesso tra la qualità del miniburger e l’ambiente tipico di una montagna che lasceremo. Ice Wine, Marco, mi spiace ma non è proprio quel granché. Siamo in orario. Quasi dai, ma pensavo peggio. Ecco le aiuole di ieri, la ferrovia. Eppure il presentimento c’è. Si espliciterà a sorpresa, nel parcheggio. Un’anatra da salvare in meno. Tristezza. E l’uomo morto è un trasferimento effettivamente veloce. Ma poi c’è il traffico in entrata. Una città che voglio proprio vedere. Ho letto tanto, a riguardo. La più ricca del Canada. Il Cavalry FC. Lo Stampede e i soliti forti con personale in costume. La ricchezza del petrolio. Edmonton è stata tagliata dall’itinerario, ma almeno Calgary c’è. Si ritirerà dalle Olimpiadi 2026 sparendo nel totale oblio nuovamente. Ma la 2 è coda. Usciamo, finalmente. Il profilo lontano dei grattacieli di Downtown a ispirare ogni incrocio semaforato di centri commerciali a casette e condos grigio-neri, concessionarie auto immancabili e ponti ferroviari dell’origine della città. Parcheggio. L’orientamento nei reticolati non è mai immediato. Grave errore in diretta non entrare con carta di credito. Mentre si piange per un piumino, si gela per il sottozero delle 7. Barbieri che sembrano colazioneri. Ferrovie, di nuovo, Torri, chiaro. Ecco la via pedonale di shopping e nobiltà passata. Non si trova un posto decente. Urlano. Andiamo qui. La chiave, grazie. Smoothie, voglio provarlo. Il caffè, insomma. È sempre l’unica cosa che definisce il mio minimo di italianità. Mario Alfieri non è passato invano. Anche qui (come a Toronto e a Montreal, n.d.s.) c’è un percorso per le ore di gelo, stavolta sopraelevato e non interrato. Al volo da Starbucks. Negozietti interessanti. I Fire non li abbiamo mai seguiti. Peccato mortale. Già l’uscita giusta. E improvvisamente siamo in un film. Siamo proprio dentro un film, aspettando l’ascensore che ci porterà con altre comparse ai piani alti della finanza canadese CBC. No, macché. Noi dobbiamo scendere. Anzi io devo correre, chiedere indicazioni (persino!) e pagare l’obolo alla municipalità, prima di sbagliare strada dando ragione al mio istinto ribaltato dalle parallele, locali notturni, supermercati per cani e gatti (esistono da anni anche a Milano), parcheggi sterminati vuoti, traffico canalare, di nuovo la 2 per la 1, periferia già piatta di impianti industriali, la skyline ormai remota che non ci abbandona, la consapevolezza del trasferimento lungo nella curva del tir davanti allo sterrato. Ok Corallo, stavolta lo svincolo del GPS è quello giusto, l’acero bianco su campo verde, ancora una giornata di sole, la pianura poco accattivante di impianti di estrazione petrolifera, niente dinosauri per noi, Brooks, la sosta delle strade chiuse a imbuto quella di chi sogna di fotografare i dettagli architettonici di tutti i motel del Nord America, il più grande tepee del mondo a Medicine Hat. E alla fine la bandiera desiderata arriva, il giallo, il verde e il fiore della zona, lunghi treni merci che accompagnano lo scorrere del tempo, una strada così vuota da poter fare un selfie alla mezzeria lasciando le ore 10, il grano ovunque di chi ne produce in quantità abnorme, Saskatchewan, questo sì che è un posto da visitare lontano dai luoghi comuni, la terra dei cieli viventi, metafora assolutamente realistica di una landa romanticamente deserta dove le opere d’arte da ammirare sono i fantastici silos bianchi di legno che punteggiano il lento macinare dei chilometri che calano a centinaia. E il windshield preoccupa, l’avvertimento dell’ocho che torna in mente, l’abbigliamento da cowboy dei rodeo lungo la strada, Gull Lake il nulla di una mappa appesa alla parete, gomma da masticare, vecchie porte a vetri e sentore mongolo, Swift Current uno svincolo su di un bosco collinare, cimiteri, l’ordine dei giardini senza recinzione, Moose Jaw che resta lontana con i suoi murale dell’era d’ora del proibizionismo statunitense. Regina è una Regina? Piccola capitale di memorie da Spazio Ultima Frontiera, ormai ridotto a collezionare frazioni. E la tangenziale sanguina, lavori di chi investe in infrastrutture, immissioni a sinistra di semafori canalati, il foliage pia illusione alinica, case basse a balconi bianchi, cartelli gialli di deviazioni, l’ora tarda del marciapiede in rifacimento all’università, il parlamento d’ordinanza di una foto a stato per il diario facebookiano, cercare un oggetto perso tra le foglie, panchine di pietra, percorsi di scoiattoli. Gli attimi diventano per pochi minuti eterni, le riserve lontane di indicazioni e sterrati, negli occhi tuoi io vedo un dono che prezioso un giorno rivelerai, decorazioni gialle quasi spagnoleggianti, medical specialists, Scotiabank e Plaza, ristoranti etnici, Downtown di squilibri e parcheggi, as usual, un giro dell’isolato di ideogrammi e Casinò, Holiday Inn e Best Western le scelte oculate di sbarre e figli che nascono. Cala l’oscurità, magica in questa provincia ricca di pochi grattacieli a uffici chiusi, barber shops, locali prelevati direttamente dai 60’s, una piazza centrale di eredità Fairmont e strip colorata di locali messicani, I will think of you tonite, il pub e il trespolo, la steakhouse senza finestre, la regola da derogare nella villetta psychocraviana, Kitchen+Wine bar e ATM nella hall della sala da ballo, un hamburger di bisonte e il cielo che cambia colore dietro al silo. E poi la sento, quella maledetta farfalla. Oggi si fa colazione! Pancake, mamma c’è la macchina che le fa. Sciroppo d’acero, yum! Un signore col gillet arancione ha finito. Papà legge le notizie locali. E si parte, uffa. Mettete genialità! Dicono che cambi un po’ lo scenario, chiese strane, benzina da autorizzare, case basse e semafori, poi sterpaglia che segna il confine con il Manitoba, PIL più basso e gente simpaticamente americana, SUV e trucks gli unici compagni di viaggio, io e te insieme, Brandon una metropoli universitaria, Portage la Prairie, le solite urla ‘timidooooo’ per due finestre colorate, liquirizia, ‘che brutta che è questa città’. E i chilometri in ingresso fanno dimenticare la Parmalat che saluterà poco dopo, c’è l’aeroporto, c’è la piantumazione recente, c’è un parco diffuso, lontano sulla destra, ci sono condos orribili a intervalli regolari, ininterrotte attività commerciali (persino il ‘primo’ KFC), le rows di villette nascoste alla vista nelle laterali alberate, c’è il sentore di capitale in edifici monumentali e musei contemporanei, cartellonistica, la vita è facile con la voce parlante quando non propone inversioni a U. Winnipeg, today it was just a matter of 500, una passeggiata questo viaggio già giunto a metà percorso e senza difficoltà di nessun tipo, solo due persone in tutto il viaggio non hanno capito il nostro inglese (una nemmeno il francese), servizi eccellenti ovunque, infrastrutture più che buone, ok mi direte, queste cose si sapevano già, ma verificarle sul campo è sempre più probante che assumerle per sentito dire, più gratificante per chi dovrà tornare ai parcheggi in doppia fila e sul marciapiede, alla gente che non si ferma alle strisce pedonali, agli anziani che cercano di passare davanti nelle file. Oggi sarà l’ultimo giorno di sole completo, e gustiamoci allora questa città meramente americana, isolata dal resto del Canada e più vicina a Minneapolis, anche nell’appeal un po’ datato di skyline vecchie e isolati devastati di hotel giganti e casupole bambine, il succo di frutta alla reception, primo piano ad angolo e vista sulle luci che si accenderanno, Minion sale, la Lola no, ci sono due ingressi e l’altro è decisamente più consono, sale riunioni a piano terra, capelli rossi e chili di troppo. The fire still burns, Broadway sembra una piccola NY, ordine urbanistico, il profilo della Railway Station, tunnel di tubi, The Forks l’area giochi chiusa dei bimbi piccoli, un paio di landscape memorabili dell’architettura dei nostri tempi (Canadian Museum for Human rights e il mercato coperto rilanciato da street food e boutique di un’artigianalità che vola), caramelle colorate, una statua di Lego dove nascondersi, il freddo pungente dell’addio scontato alla seconda comunità francofona (St. Boniface e il suo rosone vuoto, ma cosa manca a questa frase?) e allora sì che non falliremo più. Sììì, (finalmente facciamo) qualcosa per me! Museo dei bambini, si chiama. La giacca giù. Là ci sono i bagni. Illusioni ottiche, saliamo. C’è lo scivolo. Poi lo rifaccio. Esperimenti. Lanciamoli, da dove scendono? La lasagna! Il treno, adesso vi faccio i miei travestimenti. Uffa, è già passata un’ora? Chiude. Dai, ancora qui. Riel, figura dibattuta dei diritti dei Métis, Chez Sofie sur le pont ha chiuso, il flavour calatraviano figlio di Prefontaine e Gaboury per un must che si imprime nella memoria mentre calano le prime e ultime ombre, gestalt forms ispira, zeroism meno, Shaw Park romantico monumento al baseball, Exchange District l’apparizione che conquista, alberatura e dettagli recenti, cortili berlinesi e il seme dell’alternativo, flashback newyorkesi a ripetizione, strade larghe non vi deluderà, colonnati classici e monumentalità verticali, skaters, abbigliamento di seconda mano e gallerie d’arte, palestre per pugili, classici ristoranti di ispirazione francese (sei matto?), birre locali da meditazione, bettole ucraine e lavori in corso, we’re back in Portage and Main, terra di nessuno, ma l’unico flusso possibile è quello delle magliette bianche e delle magliette blu, Maple Leafs e Jets pronte a sfidarsi al Bell Centre. La coda è tensione, emozione. La biglietteria ha un posto solo prima del sold out ufficiale. Il manager dello stadio, gentilezza e disponibilità, ma i prezzi già più volte sondati online si confermano immancabilmente quelli, forse eccessivi per un piccolo disco di metallo da intravedere dalle piccionaie viola dietro la porta. E se il primo pub dice no, resta sempre l’elegante Keg a South Portage a spalancarci porte di servizi impeccabili e televisorini, must continentale assoluto, a seguire le evoluzioni ospiti vincenti con la consueta razione quotidiana di patatine fritte. Forza, forza, che oggi perdiamo l’ora. Flusso di coscienza. C’è qualcosa sul parabrezza. Finalmente i Nickelback. Ontario. Ecco i cartelli del passato. 10km in meno di limite, sigh. La polizia? Qui non c’è mai la polizia. Radar illegali. Come è già cambiato il paesaggio. Addio, praterie. Qui rocce, pini e laghi. Da subito, e dureranno per tutto lo stato. Forse alla fine complessivamente il più bello. Lake of the woods la prima grande attrazione. E chi la conosceva? Kenora. Alina scende e scatta due foto. Ma il cielo è grigio. C’è un centro vecchio. Un pesce enorme. Charlotte ride, è ancora piccola. Giro turistico dell’isolato. Season is closed, we already know that very well. Ufficio informazioni turistiche. E di nuovo l’acero. Dryden sarà la sosta successiva. Appeal devastato dalle industrie pesanti, non è la prima volta. Banche, farmacie, hamburgherie, supermercati. Quattro eroine che sparano caramelle. Meglio Ignace. Molto meglio. Un molo e una foto ricordo per il primo pilota delle Airways locali, tre idrovolanti più uno dismesso, e chissà quale febbrile attività sotto il capannone. Piano piano recupera il foliage. E torna il sorriso sul volto di Alina. Nuvole e pali della luce. English River, che nome originale. Ci sono delle cascate. Ma che ci siano davvero, che non sempre il toponimo Falls è garanzia. Sì, ci sono, e che sorpresa. Pagare il parcheggio alla macchinetta automatica di corsa sotto la pioggia appena prima della chiusura: fatto. Kakabeka, ci vorrà un po’ per memorizzare questo nome. I turisti sono tutti statunitensi. Il confine è vicino. Memorabili. E il traffico si canalizza all’ingresso della Baia del Tuono. Ci piace più la collina, il centro col suo pubblicizzato Waterfront è rimasto indietro, recessione e nomi finlandesi, una banca sprangata, un ristorante di lusso fianco a fianco. I nativi sono pericolosi? That’s why I’m asking. Tappi a profusione. Il letto in cui non si dormirà. A ogni risveglio un cambio. E le scale antincendio delle vertigini. Si sbuca dietro la reception. C’è la sauna, c’è la piscina. Corridoi, il vecchio lift il nostro inizio serata. Red River Road aveva conquistato. Van Norman non piace a Fuzz. E poi c’è Tomlin, la stella di quella guida che non ne azzecca una. Sala principale, grazie. Ostriche del New Brunswick, favolose! Birra. Tutto il vino della carta è dell’Ontario. I salumi, scelta difficile. La tartare di salmone, scelta difficile. Rovinano tutto con le salse (cit.). E diluvia! That’s a good drive! E la concentrazione serve maggiore proprio quando sei stanco, che ovvietà da gombloddo, seguire il traffico mentre i benzinai locali non hanno beveroni, non hanno muffin, non hanno crostate, l’uscita da Thunder Bay di nuove costruzioni sul lago e canzoni senza verve, maleducato, lo scuolabus dalle luci rosse la chiamata a raccolta degli studenti del lago Superiore, un profilo assente per lo Sleeping Giant, attrattiva rimasta sulla carta assieme a un canyon sfuggito persino alla toponomastica, ed è Nipigon a timbrare finalmente il cartellino per Tim Hortons, nuovo logo e nuova costruzione che sforna colazioni salate e dolci per sikh, camionisti e rari turisti europei, il Wi-Fi per la mappa fino alla  prossima destinazione. Tim Hortons! Tim Hortons! That’s Canada in one picture, one logo, one image. That’s simply Canada. E al bivio di un’alba che comincia lentamente a colorare di riflessi il lungo lago, la strada si biforca e lasciamo la 1 per seguire l’unico percorso possibile verso una meta che sia soddisfacente per chi festeggia 40 anni proprio oggi, nel bel mezzo del nulla dell’Ontario dell’ovest, dove i laghi si susseguono rapidamente in sequenza, destra, sinistra, di nuovo destra, con qualche fiabesca casetta di legno e rari insediamenti di deposito legname e negozi di necessities. Neve. Ghiaccio sulla strada. Pensiamo ad altro. C’è ancora il cinque davanti? Stamattina c’era quasi l’otto. È andata. Forse tornerà, non si sa. Siamo già nel punto più alto? Ora comincia lentamente a scendere. Longlac e il suo drugstore, ci fermiamo all’Husky e vuoi non coccolare un peluche in più? Fuori fa freddo, si avvicina il sottozero. Hearst ha un pennone dimostrativo, statue in bronzo, casette in legno da fotografare, chiese periferiche sulle colline. Finalmente ti avrò, tra le mani ti avrò. Kapuskasing, nomi tributari, ci siamo, un Comfort Inn a casetta, la roccia su cui scolpire il lungo toponimo rosso, plumbing and heating, ristoranti e immancabili listelli bianchi, Chevrolet, Buick e GMC, funghi come centrali, depositi come garage. L’ultimo bivio nella foresta e una delle dieci gemme nascoste dell’Ontario si svela ai nostri occhi stanchi e curiosi, una rotonda esplorativa, la squadra giovanile di hockey, una triste steakhouse di passaggio dalle tovaglie come le camicie di Armand, l’hotel di un treno che non partirà, suggestioni hopperiane e sfumature di Delvaux tra i fili lontani dei binari. Cochrane, Ontario. Non Cochrane, Alberta. Subito fuga, la grande attrazione a biglietterie spente ha un’ora da regalarci, il parcheggio fangoso, la recinzione vicina, le case con giardini curati nel neighborhood accanto, Polar Bear and Habitat, Heritage Village, finalmente, aveva ragione Alina, un West pittoresco e una pinguinaia a scivoli, i tre orsi polari A, B, C e gli avvistamenti rapidi, la pozza in solitario, la boule de neige bianca, il museo delle slitte un altro omaggio al grande assente. E restano momenti gioiosi, fa capolino un sole quasi caldo dalla coltre di nubi permanenti, la Jetta si ferma senza fretta per scatti a ripetizione che immortalano la morte, le tombe, gli zombie, le ragnatele, i pipistrelli, i mostri verdi e naturalmente le onnipresenti, amatissime zucche arancioni. Epperò, io volevo farlo qui Halloween! Il lago dei cigni ha corridoi a ingresso secondario, una colazione take-away assai comoda, una stanza larga di un compleanno alternativo, il giardino e l’abbaino, il fumatore della casa accanto e l’affollamento del parcheggio per il saluto alla ditta di pompe funebri. Nemmeno Google Maps ha mappato queste strade, il profilo fantastico delle villette sul lago, l’eleganza della semplicità, e una bakery scalcinata vende mirtilli in pasta spacciati per torta, pigiami sformati e gente poco curata nei sotterranei del supermercato, una felpa che costa troppo, ici on parle Français, mais ouais, c’è anche la rosticceria cinese sul tramonto di lamiere colorate e birre per motori da revisionare. Si rompe il tavolo? Questo è un tavolo dell’Ikea (cit.). Tanti auguri, Alobello. Perdonaci se la poutine non è il massimo. Se dietro alla candelina ci sono dei fili da ospedale. Se tutti festeggiano qualcosa proprio qui, in questo venerdì sera atipico di verande e vestigia in mattoni. Per noi sarà un ricordo bellissimo. Spazzolino. Pillolina. Docciavelox. Porta sul retro. Tre valigie. Ghiaccio da sbrinare. Alfleila waleila. Nooooooo! Una figlia che non si fa più vedere. Un matrimonio saltato all’ultimo. Un viaggio in treno dove amoreggiare. Colui che teneva la contabilità. Vite ai margini da non condividere. Ciao Cochrane! Cosa fate a Cochrane? Questo è un posto stupendo. Dormono. Via! Laghi di qua, laghi di là. Iroquois Falls. Avevo cercato anche là, nessuna cascata. Charlotte prendi il tablet che leggiamo Lapappadicharlotte. Il bivio per Timmins, anche là. Siamo nella terra di Alice Munro. Nomi giapponesi. Kemagami, lo scorcio più bello. Isolette e casette di legno. Temagami, la sosta. North Bay, Nipissing e la volante della polizia. Lavori in corso. Aumenta il traffico, aumenta la concentrazione di aziende agricole, aumenta il numero di cartelloni pubblicitari, resta invariato il paesaggio incantato. Ed è ormai periferia del tentacolo, canalizzazione da sabato pomeriggio, un aeroporto e una strada che non cambiò nome, le quattro corsie di marcia, sto passando Burlington, Mississauga e i motel da convention, Hamilton intravista di QEW, le stesse casette, oggi ci sono centri commerciali, villette vista lago, bivi di aziende vinicole Maiatico style. E dov’è questo ponte? Non ci fanno passare. Devo tornare indietro. Melissa, Melissa, asì voce me mata. On-the-Lake was fully booked. E allora replichiamo quello che non avremmo mai pensato di replicare. Una svolta a sinistra, una svolta a destra. Risalgo cercando lo squallore consumistico. C’era lo scivolo, c’era la sedia arancione gigante. Howard Johnson does not serve breakfast. Sotto il garage coperto, subito a sinistra. Ecco il mio tavolo. Mi concedo al Nord America. Mi invitano dentro a pranzo. Piove e salta la gara al circuito automobilistico. Ruota panoramica, ci torneremo. Dracula, chi si ricorda Jeeves? Motel dei divertimenti. Niente battello, niente parete d’acqua, ma gabbiani e urla a profusione. Una foto da ripetere da venti angolazioni diverse. Col foliage è un’altra storia, anche col diluvio. Per me adesso. Labirinto degli specchi, in 3. Labirinto dei laser, in 2. Niagara Brewing Company, try them all. E poi sala giochi, gettoni e tentativi. Filmati che mostrano dove siamo. Semafori pedonali dove aspettare il verde. TexMex e medievalità. La mia stanza dà sul retro, che prezzo però. Lampada di design. Avevo prenotato la tranquillità. Quella di un’omonimia, di un indirizzo al di là della strada, parcheggi per mafiosi tra motel chiusi. The Keg, we thought we knew you. Where did you come from? I don’t know. You don’t know it? Yes, from the parking place. Who are you, to wake me up? Your glory won’t last forever. E dai marciapiedi ghiaiosi della Skylon Tower emerge un quartiere nuovo, un ristorante parcheggiato con menu retrodatati, Fallsview Boulevard e il suo feticcio, gli hotel di lusso. Una birra all’Hard Rock Cafe per meditare sul senso della vita. Pioggia, pavé e alberi piantati di recente. Impalcature costeliane, trogloditi contemporanei, accappatoi e code scomposte, ninnoli che si illuminano tra le chiacchiere compassate di coppie su di età e l’entusiasmo sferaebbastico di canestri da fare con palle vere per gli statunitensi in gita premio in un mondo migliore. We are here in Niagara Falls. Ahahah. Great place, great food. Lo spruzzo che passa dal celeste al viola per I fortunati in prima fila, l’arcade l’ultimo dei gironi danteschi allo stesso prezzo, la bistecca di ribs da consegnare ai ricordi riusciti, calici di vino autoctoni per un défilé di modelle in incognito. Life will find a way. Vai col party! Una mattina canadese qualsiasi, il fresco del cielo grigio, la pioggerellina degli addii, i saluti alla reception, una deviazione che regala sprazzi di una città vera tra parrucchiere e villette di laterali ignote, la quarta volta di un tragitto a vento, ponti e nebbia. Signora Capra? York era un nome imbarazzante, Toronto suona nativo e grandioso, svincoli di una vita fa, caro Gretzky ne sono passati di condomini, verticalità nera che conquista o repelle, sensazioni ottime di prospettive lacustri di quando ancora si sentivano pareri sconclusionati, corriere stravaganti e angeli azzurri, sontuoso e monumentale il Financial district ci accoglie in anticipo di valet più economici della tariffa base e stanze di ascensori panoramici esterni che saranno pronte all’ora di una mamma dedicata, china su una figlia che fa i compiti del recupero. Il primo angolo aperto di una domenica lontana dai fasti è I love (TH), la waffle salata della martellante pubblicità radiofonica, ciambelle arcobaleno e finti focolari, turisti con la trolley del Torontoniano Imbruttito, la pista di pattinaggio promessa ancora in fase di realizzazione e quel genio di Viljo Ravell, se avessi letto il mio racconto sapresti che Yonge un tempo era solo negozietti di souvenir, e Google Maps ha già fatto ampiamente la sua parte, laterali sondate, edifici perlustrati, l’unico papabile senza insegna da tempo. Ci si perde e nessuno urla, giacca in mano, stivali alti, la Disney non colpirà qui, il watch smart oltre il budget previsto, una chiesa di pedonalizzazioni arretrate da intuire, gocce, strade affollate e il fantasma si disperde, cliniche, particolari colorati, Babbo Natale, uffici a scrivanie, immigrazione ed integrazione, fermate di quando ancora solo si intuiva, la folla sdraiata sul manto erboso in rifacimento dei campus estivi e del giallo, arancio, rosso di stagione. Qualcuno chiedeva finestre. Qualcuno chiedeva documenti di identità. Stupendosi. Qualcuno pronunciava male. Qualcuno lancia l’amo della grande attrazione, quella che richiede un mutuo giornaliero. La signora anziana ci segue pedissequamente. Finirà persino con noi, per fare il percorso inverso. Probabilmente una spia. Life is so short. Museum non è il ROM che sognavo, oltre le Zywiec finalmente consegnate. Queen’s Park è l’umidità. Spadina (non lo pronunciamo più correttamente, che il vagone è affollato e nessuno strimpella Bob Dylan) è una panchina vuota in un ritorno da perfezionare. Dupont è un nome che dice tanto, quel francesismo che comincia a serpeggiare silente. Case annerite dallo smog in un crocicchio di falsi ricordi. Sottopassi a ciclisti. Viali di nuove mansions amorevolmente in stile con il resto del quartiere, la ferrovia come delimitazione di classe, autunno ai massimi splendori, un paio di corridori in tenuta a scavalcare l’ostacolo turista sulle scale già casalomiane di una South Hill da sogno, cani a passeggio e ombrelli estemporanei per l’organizzazione di un biglietto pagato due volte, stanze da gustare in successione di docce preistoriche e balconi da discorso, giardini di percorsi vampireschi e passaggi segreti come antidoto alle vertigini, la lunga attesa per gli spezzoni di ogni film girato in loco dagli ultimi horror sino agli esordi di Tom Cruise. E Union Station non ha alci senza corna. Non ha manifesti per le partite dei Blue Jays, Raptors ora dignitosi. Si sbuca nel PATH, per omaggio alla finzione di interessi mai sbocciati. Il caso premia sempre due volte. E la memoria si sblocca. Sono al bancone in un giorno di lavoro. La pausa pranzo, forse davvero tipica. Pintaguinness. Ovviamente no. Zuppe, per tre. We now change the menu, from brunch to dinner. C’è da fare la differenziata, carta, plastica e residui di cibo. Una fontana a cani e gatti. Facile, facile. Sono seduto là e mi gusto la birra. Il terzo invece non lo troverò. Pallido sole di Flatiron noti. Suppellettili. Backstreets di ingressi teatrali. Ecco il tuo mercato. Ma è chiuso. Apre domattina. C’è l’antiquariato, nel telone, giusto dietro, prima che sbaracchino. E David Crombie già lo sa, che non ce la farò. In dei conti l’avevo sempre saputo. Ho scoperto da poco che ci fanno anche il mercatino natalizio, al Distillery District. King chiude, aveva già chiuso. Nessun terrone, ma il vento c’è. Ci sono cortili ad arte esposta e interni eleganti, qualcuno vuole risparmiare. Il battito veloce di chi cerca suggestioni remote al buio di una steakhouse ancora da aprire, l’unica chiusura dell’anno per lo staff party nel lunedì del nostro battesimo tardivo, Starbucks a ogni angolo come nella NYC dei tempi d’oro, un tavolo tutto da disegnare per un capolavoro non esposto (con firma del cameriere, n.d.s.), una bolla di cocktail virato dolce, le mille luci notturne di percorsi verticali e contemplazioni orizzontali dal ventitreesimo piano dell’ereditiera. Ah Tuh-run-nah, amarti è davvero l’unico riflesso possibile, ora come allora. Kings & Queens, England and Scotland. Appuntamenti previsti di muffin, portatili e colori di capelli, etnicità, il buio sintomatico che sfuma in alba leggera di traffico, il serpentone di aspettative assai peggiori, e poi riparte il nastro dell’alba dell’acero rosso, Pickering, Ajax, Oshawa (che scopriremo poi essere ricchissima) a ‘sto giro perfino nobilitata da un’uscita e da un distributore bianco e azzurro per il solito pay at pump, due cupole argentate di chiese ortodosse russe a vegliare l’ennesima ripartenza della 1. C’è persino la tentazione di mettere i due video in parallelo e uscire allo stesso svincolo del raptus, tenere duro, la coda di gillet gialli ante litteram è quella per una toilet promiscua dopo l’agognato bivio, 5 dollari di una lotteria vincente che non si potrà ritirare avendo superato il confine di stato, finalmente i Cheap Trick, Neil Young ancora, e il film chiarisce il suo primo finale, uscite da saltare, nuvole minacciose, l’orizzonte l’unica speranza inutile di una settimana senza sole. Keeper! Sono atterrato, vado in hotel. Kanata, il primo insediamento, il nome che originò tutto, quante nozioni mancavano all’ingenuo parmigiano. Follow Metcalfe Street, come se fosse ieri. Nicholas offre cantieri attivi e qualche chateau-like accessorio tra i panorami di una città nota e non nota, condominii ripetitivi, svolta a destra, poi ancora a destra, poi a sinistra, quartiere tranquillo di opere d’arte, insegne arancioni, cortili interni a balconati di pioggia nei posaceneri, un genio sconosciuto come molti di quelli ancora in vita, IFS, Guilbault, Les Suites, Gatineau non ci arriveremo, Byward stavolta sarà molto più di un respiro trendy, sarà il giorno e la notte della capitale, sarà il sole degli scatti e la pioggia della disperazione. L’infilata di pub stende il pallido ritorno dei cappellini da baseball, il divieto preistoria, Bank e dintorni inesplorate nella scelta conservativa di non trovarsi davanti al fantasma di una scimmia, ici on parle déjà français, zucche al mercato, i biscotti di Obama, il panino di Charlotte, la ponderazione che parte nella testa, la scritta ricordo, le scalinate di ambasciate ormai tranquille. E dall’abbaino del mancato affaccio parte una nuova perturbazione che invade le chiuse dell’UNESCO, il teatro isolato, i monumenti alla nazione, la sfilata di bandiere stilizzate e non, i restauri opprimenti al Parlamento, le tettoie di placche commemorative, le strade lontane di percorsi già battuti con l’omino giallo. Nessun paio di scarpe da lasciare al deposito zaini, nessun gruppo dei 7, nessun caffè, nessuna arte degli Inuit, è lunedì e il museo gioiello è chiuso, la distanza preclude, la balconata è quella del coro, le vetrate policromamente fantastiche, mance ed elemosine, percorsi della memoria da demolire una volta per sempre con un selfie al bancone del pub battezzato, la consapevolezza di quei momenti che durano per sempre, per la seconda volta. Il prigioniero è rimasto in Sparks Street. Al mall ci va il fotografo timido, con cuffia e basco. Attraversamenti pedonali nei lavori in corso, souvenir shops bui di magliette che inneggiano, Topolino fa 90 anni, il fenomeno Greta Van Fleet, la cucina e gli interrogativi, sconti natalizi, multisala per lo Schiaccianoci e i quattro regni. Cenare è un volo di vini locali, per l’ultima volta la parolina magica Ontario, tartare di ambienti già profondamente europeizzati di lavagne scritte a gesso e manifesti pubblicitari retrò, i Senators anche quest’anno non centreranno nemmeno i playoff. It’s a stone. Charlotte mangia un uovo. Ma che? Ecco dov’era l’auto. Quello non l’ho fotografato. Ce n’era uno anche in bagno. Il ditino fasciato. Questo è fantastico, sono un fenomeno. Non serve la magia, la conoscenza è libertà. We had a car we had time enough to fall in love with. Era questa la strada? Subito dopo c’era un McDonald’s. Eccolo, non era subito dopo. In effetti anche rileggendo la Bibbia si capisce. Quebec, donc. Voilà. Et on ne peut pas gagner de l’argent. Questo era il secondo più breve. Usciamo e ne prendiamo un’altra. L’aeroporto. Lo vedremo alla fine. E ho bevuto una cioccolata calda. Di qui non ci ero arrivato mai. Ma dove sei Saint-Joseph? La pista il giorno dopo, stavolta sì, da un ponte, e il flash di tanti rettilinei negli anni. Le infrastrutture hanno bisogno di essere rinnovate, in quella che per molto tempo è stata la prima città canadese, e i lavori sono in corso anche nei tunnel che sezionano non più così impunemente un centro città che già Google aveva mostrato in spolvero. E il sentore antico si sposa abbastanza bene con i nuovi palazzi in finta pietra, travaux, encore, e un approdo facile all’appartamento da sogno, Vieux Port, il ristorante che si pensava, l’alberatura che pacifica il cuore unitamente a un fugace sole tra le nuvole in viaggio che vanno e vengono per restare. Profitez de Montreal! La ruota, la ruota! Il minimal, il minimal! La nave pirata, la nave pirata! Le finestre, le finestre! Le zucche, le zucche! Faccio il biglietto day and night, così ci torna poi con suo padre. Speriamo un altro giro! Si gela. Stavolta non c’era la Bob Clicò. Voglio mangiare il famoso panino con la carne. Non qui! Ci si butta, fanno la combo. Mercato coperto. Devo fotografare la finestra rossa. E così il completino per Leonardo lo si comprerà a Parma. La deesse, la verité, a jamais oublié. Et puis, il faut manger pour s’echauffer, et alors qu’on ne peut pas choisir les restos bien chèrs, il faut aller dans un endroit magique, la Place Cartier. Nei negozietti di souvenir la boule già staccata. Persino l’antenato del Timido aveva scattato qui. C’è un palazzetto segnalato con un giardino che lascia interrogativi. La soupe, s’il vous plait. Turisti. Rifacimento manto, ecco la strada delle gallerie, ci alloggeremo ma ancora non possiamo saperlo, il codice e la rampa, un corridoio a sinistra, il letto a tre piazze e il salottino da festa privata. Frammenti di un cuore vecchio che pulsa e sta recuperando il suo charme in fretta. La scelta ovvia è Basilique Notre-Dame, un interno da sogno e un calesse che riposa al freddo degli uffici da affittare, il primo sentore newyorchese fu addirittura sulla fiducia. Vado a leggere da Second Cup fino a quando non smette di piovere. Eclissata, la catena, un nuovo logo omologato come Balenciaga e Burberry. Speranza? È dir troppo. Dove sono gli impiegati in pausa sigaretta? Un set fotografico a Victoria, probabilmente dimenticata nella fretta delle parallele dei pub, le sedie azzurre recenti, il bike sharing stabilizzato, i passanti a ritmo veloce, una salita prospettica per il Fairmont meno scenografico, la ricarica del bus elettrico uno zoom per mille vetri in cielo. Pugnalare la propria controfigura alla schiena, Square Phillips, il sentore da statua e grattacieli antichi è sempre quello della città immaginario, rimanere a bla bla bla, Les Promenades, sognare il verde, la discesa agli inferi, Eaton e un brezel da urlo, il calderone in saldo del giorno prima della grande festa. E quante istantanee emozionali da eternare, in un ritorno che scioglie, Place du Canada, scalinate monumentali, profili eleganti, la sublimazione delle mosse della stagione, i cannoni che fanno felici i bambini, il cupolone di riserva, i parcheggi sotterranei e gli uffici postali, Bonaventure, il fiume umano all’orario in cui il business stacca la spina, Gare centrale e quel funzionalismo che suona sordo all’estetica, AON, Bell, il parco urbano da innamoramento a primo sguardo alla Gauchetière. Attimi in cui non si è padroni dei propri sentimenti, il cantiere del nuovo grande complesso residenziale e i colori del Congrès, la sala di piloni rosa per la Quebecchina in spolvero, la foto del profilo di Facebook, bandiere di hotel e stazioni dei bus, backstreets a scale antincendio e profumo di cannabis, la mancia dell’aperitivo al pub dove si mescolano allegramente nelle conversazioni le due grandi lingue locali, Youville e i cortili addobbati, Callière e la riqualifica vincente. Scendiamo. Giacche? Suona uno al pianoforte. Come si chiama? Stasera agnello. La specialità del locale. La prima sala era la più bella. La terza la meno bella. Ma qui c’è la musica. Pessima scelta, l’hamburger. Non era quello che passava. Che eleganza. Il tocco francese del Canada. Semplice sarà, un sogno che si avvererà. Tra quindici anni tornerò. Un collega lavorerà ancora là. E stavolta sarò dall’altra parte del fiume, di scenari industriali similari. Non farò svolte, tra quindici anni. Ma arriverò dall’altra direzione di edifici in vetro per aziende, il nome quello che risuona anche ora, Grande Allée Ouest, voi quante volte l’avete già letto l’originale? Sorprendente questo sequel. Sarà ancora meraviglia, le due chiese come riferimento. E cercherò il mio alloggio di oggi, non trovandolo. Anche se gli indizi disseminati nel manoscritto, oltre al canonico percorso della memoria, punteranno proprio allo stesso posto, minuti persi a ricercare condizioni inesistenti, un nuovo nome, una sala della colazione che non ci sarà più, le scale ripide il nocciolo di un problema non risolto. Tra quindici anni non viaggerò da solo, ma con qualcuno che dopo due mesi dal ritorno riconoscerà la strada del famoso alloggio. Perché quella sera sarà stata la notte di Halloween. Ah quanto sogno di passare Halloween in Nord America. Dunque tra quindici anni ce la farò, c’è da esserne orgogliosi. E non ci sarà più il pub della mia serata a piedi nudi. Sicuramente no. Anche se passerò tentativi di laterali impossibili cercando di prolungargli la vita nei miei ricordi. Ma ci sarà ancora, ovviamente, lo stile francesizzante delle mura e degli edifici governativi, tra gli scoiattoli e i vigili che multano auto in sosta vietata. E non dovendo monetizzare ogni attrazione, come nelle prime visite, bypasserò la Citadelle a favore di un isolato di rarissimo charme, hotel mancati di colui che oggi mi chiede una boule de neige grande per la libreria del suo ufficio Zetagi. E per la biblioteca di Davanzati ci sarà a sua volta un Frontenac. Saranno lontane, lontanissime e quasi dimenticate le suggestioni di quel film che oggi guida ogni mio passo. Ci saranno gli scivoli di legno, per il bob, che oggi non potevo minimamente immaginare cosa fossero. E il cortile che oggi ho attraversato non avrò il coraggio di rifarlo, forse per non vedere la mia stanza mancata. Oggi ridacchiavo dei pachidati (mia espressione comune, che suonerà desueta nel 2018), ossia dei lenti turisti organizzati che si muovono in gruppo. E invece, lo direste, con la meraviglia di mia figlia sarà funicolare, verificherò, giusto un percorso attrattivo, Terrasse Dufferin, ma adesso perché non leggo i nomi? Forse perché mi affido a poche fonti santificate, che invece scoprirò negli anni meritare solo il giusto. Così Le Lapin, rifugio quebecois d’atmosfera, non può che essermi ignoto in questi tempi di veloce presunzione, mentre nel futuro anticiperemo i fiocchi di neve e le comitive, certo non le rare coppie super-informate che in ogni viaggio mi sono state davanti. E Place Royale sarà il più ovvio dei ‘come se fosse ieri’, solo i punti cardinali invertiti dalla memoria calante. E Il trompe l’oeil non c’era, questo (che) sicuramente. Non c’era nemmeno la pioggia, gelata, a mettere in fuga le comitive in anticipo nei luoghi storici dimenticati dall’attualità. E se oggi risalgo di suggestioni scozzesi, così portuali, così autoinflitte, tra quindici anni mi perderò di varie attrattive sacrificate, piazze, chiese, vicoli, finestre colorate, soprattutto laterali da cuore che batte. E se oggi non mi fanno entrare per i vetri, un giorno non entrerò per via di una minorenne. E se oggi accelero e torno sui miei passi, un’altra volta mi perderò a cercare mute ricordo dei Detroit Red Wings. E se stasera ceno, prima di un calesse che non ricorderò più dove fosse, sarà proprio quello, il percorso della memoria più evidente, non cortili ma stanze, piatti chiaramente indigesti laddove un simpatico cameriere regalerà caramelle ad Halloween. E quante strade antiche ancora ho lasciato inesplorate, lo sapranno, i miei due alter ego? Figlia mia, sei vittima. È colpa mia. Maestra, quest’anno vado a fare dolcetto scherzetto nelle case. Eppure cosa c’entra la neve, uffa! La neve è a Natale, non ad Halloween. Per fortuna ha smesso. Che brava la mamma, il mio trucco è proprio bello. Devo uscire assolutamente senza giacca per non rovinare il travestimento. Chiediamo un ombrello in prestito all’hotel. Fantasma, non zombie. Qui faremo colazione domani, dice papà. Sì pero, cosa mi interessa quale era il suo hotel! Un signore ci suona mentre attraversiamo sulle strisce, che strano! In una chiesa vendono dischi. Pensate se fosse una pizzeria. Eccole, le villette. Sono timida. Non so parlare. Attraversiamo. No. Non me la sento. Non ci sono decorazioni. Là sì, però non me la sento lo stesso. Uffa, adesso non farmi la predica che non suono alle case. Vado qui al bar. Dai. Trick or treat? Non capiscono. Des bonbons, s’il vous plait. Oh! Ils n’ont pas de bonbons. Eh, meno male che ci siamo mossi per tempo. Qui non è ancora buio. Andiamo in un altro quartiere. Ed è magia! Quanti bimbi per la strada, tra le auto. Ogni negozio ha la zucca esposta. Quasi. Saint-Jean, papà diceva che ci sarebbe stata tanta gente. Farmacia. Entro e non dico niente, tanto c’è pieno di bambini a cui danno le caramelle. Ristorante. Cartoleria. Supermercato. Negozio di alimentari. Bello. Adesso però le zucche sono finite, ma il mio calderone è quasi pieno. Passiamo di fianco a un teatro. Papà non si ricorda se era là, il suo pub. Passiamo le mura. Siamo di nuovo dove eravamo prima. Qui c’è un altro simbolo. Ma qualche negozio che ce l’ha c’è. Qui i bambini sono già passati, è tardi. Devo per forza parlare. Des bonbons, s’il vous plait. La birra, sempre la birra. Ma quante caramelle mi hanno dato qua? Una coppa da cui poter scegliere. C’è ancora il terzo giro. Di corsa nel negozio degli addobbi di Natale. Tabaccheria. Dove sei nonno? Articoli sportivi. Ora metti la giacca! Uff, va bene. Zucche! Un ristorante! Ecco, è stato l’ultimo. Ma è stato bellissimo. Mangio patatine fritte. Papà una tourtière. Piove. Joyeux Halloween! Forse ce la faccio, adesso. Penso questo mentre scendo un viale nel parco, che, no, non ricordo. Il ponte per forza. C’è solo un ultimo riferimento da superare, quel gufo né semi addormentato né ubriaco, ma che fa semplicemente l’occhiolino. Come mi ha fatto chiaramente capire mia figlia. Deve essere andato, non l’ho visto ma posso respirare, inizia un nuovo miniviaggio, le Province Atlantiche (amato feticcio). E infatti il Quebec non ha più nulla da aggiungere, perderemo un’altra ora, solo cottage e cartelloni pubblicitari per una Riviera del Lupo che non si materializzerà nemmeno questa volta. Ed è subito New Brunswick, con le foreste che caratterizzeranno tutto il paesaggio di questo stato misconosciuto. E com’era semplice, amare e sognare, guidare per ore su di un confine invisibile, senza altisonanti ‘bridges to the USA’, solo una strada sbarrata come un binario morto di una ferrovia, nubi basse che si confondono con le emissioni di una fabbrica, cartellonistica di shopping in dollari, distanze stradali che misurano lo stato e la provincia, senza convocare i giganti appesantiti di rispettiva appartenenza. Fredericton, apparizione, gli hotel periferici che furono la causa della scelta, una rotonda e una radio locale dove un pedone può solo significare incidente in corso, l’anima commerciale di banche e supermercati a proteggere un limbo verde di magnifiche case in legno, l’attualità di giardini e decorazioni, il passato di fronte strada, tetto spiovente e colori sgargianti, e intanto qualcuno compra calze natalizie in un negozio dove il bilinguismo ufficiale della provincia (votato nel 1979 da un primo ministro francofono) non è messo in pratica. Piccola capitale, grande serenità. Il reticolato tra la King e la Queen di ovvie origini mai celate è una passeggiata per Catalani marittimi, tra insegne colorate, birrifici indipendenti e una serie di proporzionati edifici storici in mattoni, un ponte in legno e un faro per una foto ricordo, foglie gialle giù e festoni celebrativi permanenti. New Maryland, nessuno potrà dimenticarti. E per una volta il trasferimento è così breve che ancora non abbiamo capito se poi alla fine il tappeto volerà, Reversing Falls è una visita in un orario di curiosità intermedia, il flusso a svuotarsi di un belvedere che si intravede, il vuoto in vetro così cool del momentum, sedie arancioni e uno speech da mimare al microfono, la storia della città e il fenomeno naturale unico al mondo che vale la gogna mediatica delle due stelle Touring, il braccialetto giallo e le collane per le diciottenni ormai diciannovenni. Saint John, non Saint John’s, evidentemente. Terranova resterà chimera, qualche targa malinconicamente intravista nell’ultima domenica di traffico. E Stoccolma torna alla mente nel profilo slussenato ma non sgraziato della città portuale, persone incollate alle panchine, il gigante marittimo della nave di crociera bostoniana che si appresta a salpare, i passeggeri già tutti a bordo delle strade deserte del centro, un isolato da circumnavigare dei sensi unici della pioggia e dell’adunata per la scuola superiore, it doesn’t seem very promising. Jim sorseggia vino e prepara lettini nella stanza angolare della villetta Psycho style, un quartiere tranquillo dallo charme infinito di mattoni anneriti e portoni arrugginiti, alberatura di un decennio abbondante, altri b&b sparsi, un barbiere al lavoro nel silenzio della massoneria, tra i beggars accampati fuori dagli archetti dorati, le ultime attività al mercato del pesce dai battenti serrati, le luci spente delle villette nel quartiere degli avvocati, la spesa al liquor shop di qualche tappo random, vino di Dragasani, Inniskillen e poco altro spazio alla celebrità locale corretta con il brandy, prima che Billy e la sua raccomandazione offrano luci soffuse, tavolate chiassose e coppie di turisti danarosi oltre cortina, il lobster roll come da manuale. Marmellata. Il post del Cavagnacco era stato illuminante, e, despite the tension, il parco nazionale offre strade deserte di segnalazione sentieri e fiordi, Fundy di asfalto bagnato, Alma a cui non pagheremo più bonifici, pompe di benzina di quotidianità gioviali, la nebbia che nasconde l’altra costa, Hopewell Rocks solitarie di fango e scatti col telefono di un diario Facebook rigorosamente aggiornato. Si preannunciava difficile, e difficile fu. Arreso, da subito. Meglio un puntino blu. E così è Downtown. Egg nog. Latte. Enjoy fall. Moncton, il cielo plumbeo e i sottopassi. C’est la vie. Balla per me. Balla per meeeeeeee. Elmwood e le lapidi. E il bigino che ci ha raccontato tutto è già pronto a farsi da parte per accogliere un’altra microbandiera, le querce di Edoardo e il solito leone rampante, il Kent e il 1964, il ponte nell’oscurità totale del mezzodì di una perturbazione inossidabile, Welcome to PEI. Che bello, fermati. Rallenta, faccio una foto. Finestrino giù, entra l’acqua. Papà! Summerside, l’ordine e la civiltà in un fermo immagine, il tractor che nessuno supera sulla strada di Kensington, un’isola da sogno, colline e isolamento, la parrocchiale protestante, closed for the season (very obvious), una collezione di casette, food&drink, i barn di Malpeque espressione di un’arte innegabile, Anna dai capelli rossi che non conquista di episodi in cui parla troppo, e il pub insperato, la pietra miliare di zuppe per soste bagnate, panchine in legno, lavagnette, rafano. C’è un Borato fermo, non siamo noi. Cars for sales. Allora cosa dici andiamo? I voli costano. Milton Station, c’è traffico. Concediamoci completamente al percorso. Anche qua le elezioni? La vita è ciclica, avevo dimenticato le mie stesse lezioni. E così Charlotte è arrivata nella sua cittadina, di università e aeroporti, di villette vittoriane all’ombra di Inn secolari, edifici gemelli di stanze a motel, piazze verdi quasi incolte, hotel di lusso che qui sì avevano la piscina e gli accappatoi, deli e fumatori in strada del Friday night, un panorama lacustre-marino che richiamerebbe altre adorazioni passate, se ci fossero le condizioni meteo per vederlo. Charlottetown, avete fatto proprio un bel giro. E se Ottawa vota il miglior gelato, Milano non prova. Ma il pigiama vessillo nazionale si porta a casa, nella misura sbagliata, mentre lavori in corso opacizzano la solennità della sala della grande unione, parcheggi a più piani, fermate del bus, il museo e la Province House funzionalista che stacca dal mattone marrone circostante, Sydney e il blu, Water e l’arancione, il rosso e il blu del Fish&chips, un negozio dedicato alla Green Gables, statue di un percorso per bambini, il Pho bo e i lampioni, perlustrazione avamposto di sale eleganti e l’eterna sfida carne contro pesce. Anziani. Faremo una colazione a due. Con la scelta di un main. Al bancone c’è la vodka di Terranova. Compiti o doccia? E l’oscurità sarà un giro a vuoto in un centro commerciale dal difficile orientamento, il riposo sereno di un locale di pesce, la tranquillità delle laterali, l’ombrello grigio da lasciare sulla porta, le cozze rubate dal mago, il plateau che scatenerà applausi forzati e invidia, ostriche che hanno trovato casa, il granchio persino un filo più buono della sublime aragosta, Row House, ci ricorderemo di fare la recensione entro un anno? Mi sembra di essere via da un mese. Anche a me, in coro. Eppure quando le lancette suoneranno la sveglia, ad Halifax, holy shit, we came from Vancouver, si cercheranno suggestioni di scivoli infiniti e finti hotel dove soggiornare, gli ultimi scatti di una timidezza a volte premiata, il ponte simbolo della squadra di calcio, l’ultima sosta rifornimento a meravigliarsi ancora di tutti i prodotti colorati del mercato nordamericano. Siete stati anche in Scozia? Ma no, forse in Nuova Scozia, vero? Halifax l’avevamo già vista, rocce e foreste, un caffè omaggio ogni 20 dollari di carburante, rocce e foreste, l’uscita 2 e la discesa rapida, rocce e foreste, il bivio per la meta più turistica, rocce, foreste e fiordi, il sogno di una penisola incantata sino all’approdo quasi islandese di Peggy’s Cove, il faro e il ristoro dei gitanti, i ciondoli nei corridoi aeroportuali di un’ultima poutine, le sedie colorate e i magneti per Franco, gabbiani, rocce e foreste. E il tesoro maledetto? Caso volle che. Aspetta, aspetta. Canada? Ma dove è questa Oak Island (Ooc ailan)? Non ci credo! A pochi chilometri da dove saremo l’ultima notte! E così è uscita, sonno latente e manifesto, navi spagnole e carichi sepolti, budget per perforare, pezzi di legno e fango, due fratelli che non si arrendono, monete e cannoni, schiavi e paura, buche e resort, do not proceed unless you are invited. Nei miei sogni parlo, e la mamma risponde. Il giovedì sera va scemando. E se il roll costa solo 9 dollari, allora fermiamoci, oppure no? Ecco un altro dei posti più belli del mondo, cosa abbiamo da fare? Che scandalo, i Massacre mai. Gli Heart solo una volta. I Rush un paio. Ecco i canadesi. The Famous Three Churches. 1000 abitanti e 6 consiglieri. Una sosta controvoglia nello sterrato del ruotino, di un cuoco aitante a 30 dollari e zuppe di pesce, libri da scambiare e timoni colorati, all’ora di un pranzo che per qualcuno è già cena (autocit.). E l’unico pub della città dell’UNESCO era lontano, il timore degli ottanta chilometri all’ora, il soppalco dell’ultimo set, il rosso dei magazzini portuali, la balena che inghiotte bambini, il pesce d’obbligo del sabato sera, Lunenburg, qui almeno all’originale qualcuno (forse per sbaglio) ha aggiunto una N. The oldest part of the city. I parchimetri d’epoca. Gli alberi qui quasi spogli sul limitare della collina. E il vento che trascina i parapioggia. Viola, verde, giallo. Blu, arancione, rosa. Sunny tomorrow. I think I said it all. Et puis quoi encore? Ah ouais, bien sûr. Alina va lire le Canada, quand elle revient, revient du Canada. Peut-être.

Horrorland/The Hoarder



Sceneggiatura 6: l'intreccio semplice di giallo classico (spoiler: la regola resta sempre 'il colpevole è l'unico che non hai visto morto') con tinte horror di bocche cucite porta a termine un'ora e mezza di intrattenimento dignitoso.
Scenografia 5,5: un taxi giallo in un flash iniziale che resterà l'unico esterno della pellicola, corridoi molto motel-like dalle claustrofobiche tonalità verde acquamarina, depositi di oggetti di matrimoni da divorziare.
Cast 5: Mischa, ti preferivamo adolescente dalla sessualità incerta, oggi sei appannata nel tuo spavento irreale di un mondo chiuso nella NYC aperta 24/7.
Regia 5,5: nella stanza dell'autoinfliggimento le idee non possono essere originali, la resa che varia da scena a scena senza mai precipitare, un paio di spaventi e altrettanti omicidi originali, e questo è evidentemente quanto per una produzione senza budget.

venerdì 30 novembre 2018

Letteratura contemporanea/Cooper


Catalogare è difficile, il genio invocato si camuffa da imitazione e dissimulazione, lo scorrere violento delle pagine abbandona famiglia, amici e amore a un solo calderone di dimenticanza permamente, l'escamotage letterario di una trama facciata a cadere definitivamente con la metaletteratura finale di incubi permanenti mai scacciati tra rupi, fulmini, lupi, treni della metropolitana, violenze sessuali e incidenti stradali. Incompiuto, diremmo, se non fosse esattamente l'obiettivo del buon Douglas. VOTO 7

mercoledì 14 novembre 2018

Letteratura contemporanea/Atwood


L'incipit scrupolosamente storico e gli sviluppi parzialmente di fantasia, la CBC e Netflix, l'interesse e la lunghezza di una miniserie, i piani narrativi d'abitudine sfalsati da flash-back e racconti, due storie d'amore sulla carta, la potenza evocatrice di una figura volutamente dubbia (da cui l'alias malamente tradotto in italiano). Lento, troppo, l'incedere elegante. VOTO 6,5

lunedì 15 ottobre 2018

Cinema francese/Happy End



Sceneggiatura 7: la libertà di poter scegliere, l'ostacolo-dramma che prende forma e si manifesta in ogni aspetto della quotidianità, la carenza di sentimenti in between che sospende giudizi sul modello perfettamente sbagliato di famiglia e società.
Scenografia 7: Calais di poche street immobili, una carrozzina e le insegne commerciali, appartamenti vuoti, ristoranti sul mare e periferie di condomini rosa, il cantiere del crollo in diretta.
Cast 7,5: una 'famiglia' ben orchestrata nella mediocrità sublime della contemporaneità, dal grande vecchio immobile alle nuove generazioni distratte di una superficialità apparente, passando per l'ennesima grande interpretazione della Huppert.
Regia 8: lampi di classe ad intermittenza ed autocitazioni, immagini nitide di grande cinema (il pugno ai margini della scena, lo scivolo lento, non inesorabile, verso l'acqua), dialoghi di una trama che si intuisce per puzzlizzazione.

Letteratura contemporanea/Munro II


Storie di intere esistenze che scivolano in migliaia di atti ripetuti e poche svolte improvvise non comprese, un bonario pessimismo quasi compartecipe delle disavventure amorose di protagonisti il più delle volte paralizzati dalla propria ignoranza, il consueto spettro temporale che va dai '20 agli '80 del secolo scorso, la provincia dell'Ontario a dominare sulle altre location canadesi. Bambine morte annegate, amanti sul treno e in stazione, un matrimonio che non si farà più, un padre padrone e una moglie schiava, nerd antelitteram di fatture ed eredità, minacce sepolte da una gamba zoppa, un amore che si consuma tra i letti d'ospedale della grande città. VOTO 7,5

lunedì 1 ottobre 2018

Letteratura contemporanea/Munro I


Quotidianità canadesi di esistenze che sfugogno dalle dita, un'unica donna che accomuna tutte le protagoniste più o meno sfortunate di racconti intensi e coinvolgenti, lo stile che mescola passato e presente, prima persona e terza persona, distaccamento da autrice e empatia da personaggio, l'arco temporale ad abbracciare l'intervallo dai matrimoni combinati degli anni '20 sino alle comunità religiose degli '80. Treni che investono persone, ceneri di adozioni offerte al fiume, cadaveri mangiati da animali, amanti di una notte uccisi da un palo, gemelli sordomuti a chiudere la porta in un caleidoscopio di eventi bizzarri come la vita. VOTO 8

lunedì 17 settembre 2018

Cinema canadese/Barney's Version



Sceneggiatura 6,5: fedeltà ai limiti dell'estremo (solo il whisky scorre più lentamente nel proibizionismo cinematografico, n.d.b.), il pregio e il fascino del testo richleriano, senza voli pindarici o esperimenti da cinepresa.
Scenografia 6,5: Montreal che si palesa in pochi attimi fugaci (il cimitero sulla butte finale il più pregnante, n.d.b.), foliage canadese e note cartoline da Roma e New York.
Cast 7: due assi nella manica, lo strepitoso ebreo non osservante Hoffman e un Giamatti (troppo giovane nell'invecchiamento dell'Alzheimer, n.d.b.) anima perfetta del protagonista dissacrato.
Regia 6: Lewis, carneade da cassetta nordamericana, la messa in scena minima di tuffi nell'acqua e misteri malcelati in un finale affrettato, la centralità degli attori in quadretti mutuati.

Letteratura contemporanea/Pulixi


Dramma futuribile di kamikaze islamici e radici di radicalizzazione (in)sospettabili, il razzismo come linea piatta di fondo tra le operazioni della 'ndrangheta. Il tratto semplice che delinea personaggi in divisa sempre universalmente simili. Una Milano bellissima tra lustrini e periferie fatiscenti, in una conoscenza dei luoghi 'sentita' e più che approfondita. 'Milano diventerà la New York d'Europa. Scherzi? Diventerà meglio.' VOTO 6,5.

venerdì 7 settembre 2018

Letteratura contemporanea/Dicker III


Saggio è il ritorno, la via maestra spianata a prevalere sullo sterrato di un tentativo (Baltimore, n.d.b.), in bocca a uno dei suoi personaggi l'autopunizione del penultimo livello prima del romanzo rosa. Dicker si autocita in maniera spudorata, dall'ambientazione al narrato spezzato in flash-back e più voci narranti, tutto ricorda da vicino Harry Quebert. Eppure la storia appassiona e svela pagina dopo pagina la malattia universale della provincia e della condizione umana, la rosa di sospettati a estrarre dal cilindro una tabula rasa quasi christiana in un teatro sperimentale del colpo di scena rimasto in canna. VOTO 8-

lunedì 27 agosto 2018

Letteratura classica/Richler II


Pout-pourri passionale di incipit autobiografici nell'ebraicità proletaria post WWII, contorni di regole e origini storiche, l'appiattimento che si consuma velocemente tra aneddoti di tornei inglesi e minibiografie dei giocatori più famosi. Testimonianza. VOTO 6

mercoledì 22 agosto 2018

Letteratura contemporanea/Gimenez Bartlett


Prolificità da indagini per due commissari, la castiglianità della città dei single, intreccio semplicemente accattivante di pochi sospettati tutti colpevoli, un ospedale semiperiferico di suggestioni notturne e fughe brevi dalla prosaicità delle lettere di addio. Mix classico di genere tra indagini e vita poliziesca, tra i più riusciti di una nutrita pattuglia mondiale. VOTO 7


lunedì 13 agosto 2018

Horrorland/Hereditary



Sceneggiatura 8: la casa delle bambole dell'orrore, la proiezione nel reale del subconscio, l'invocazione del male dominante, prismi di normalità aberrante, la possessione come fuga da un mondo di paure. Classico immediato degli anni a venire.
Scenografia 7: locations che valgono il viaggio, pochi respiri di una narrazione stanca, la strada troppo buia dell'incidente, una casa sull'albero costruita su misura per il film.
Cast 7: lo spessore della Collette richiama grandi interpertazioni di pellicole collegate del passato, la cartapesta di Byrne brucia, la Shapiro è l'emblema di una creepy side che non può realmente prendere possesso di uno stanco Wolff.
Regia 8: apparizioni citazioniste, decapitazioni angoscianti, sedute spiritiche che prendono fuoco, una cinepresa che spesso accarezza il sogno del piano sequenza in illusioni ottiche realistiche ed estremamente ben focalizzate. Un debutto da annali per Aster.

venerdì 27 luglio 2018

Letteratura contemporanea/Postorino


Storia vera romanzata, l'amore ai tempi delle SS, il punto di vista insolito dei tedeschi pro regime per forza, semolini come opere d'arte e partite di latte avariato. Storie d'amore e flashback che si intrecciano a spezzare la monotonia di una quotidianità immobile, il percorso della WWII plausibilmente percepibile tra tane del lupo e cieli sgombri di aerei nemici. Introspezione abbozzata, l'elemento estraneo ebreo a insinuarsi come verità evidente malcelata, lo stile fresco e piacevole del filone rosa (non a caso il nome della protagonista, n.d.b.) storico. VOTO 6/7

giovedì 26 luglio 2018

Horrorland/Truth or Dare



Sceneggiatura 5,5: l'intuzione di Calux un cult a prescindere, il gioco infantile di un inferno in videogame, rametti secchi di cause religiose e santoni a predicare penitenze.
Scenografia 6: Rosarito nome esotico springbreakiano dalle movenze losangeline, fughe in auto vecchie di qua e di là da un confine immaginariamente reale.
Cast 5,5: una coppia scoppiata sin dall'abbinamento delle attrici, sopravissute alla mattanza a perorare un seguito globale di YouTubers, alcolismo e omofobia nella contemporaneità del tutto.
Regia 5,5: un paio di spaventi e la deformazione al computer dei volti, pause da copione e una serie di uccisioni sacrificate alla sottotrama dell'amore-odio adolescenziale femminile, il regista commediografo e i toni in sottofondo.