sabato 30 aprile 2016

Cinema ungherese/Son of Saul


             
          
Sceneggiatura 7,5: una storia non ancora raccontata nel novero dell'enciclopedia delle atrocità commesse dal regime nazionalista ai danni della comunità ebraica, una storia di speranza nella morte.
Scenografia 5: il bosco del finale drammatico è un mero flash, prima non si intravede nulla nel  mondo ovattato degli scherzi sadici nazisti e dei cadaveri da lavare.
Cast 7,5: monumentale, mega job per un'anima in pena che non ha nulla da chiedere se non portare avanti un ultimo desiderio simbolico di sepoltura.
Regia 8: sperimentale ed incisiva, una cinepresa che esercita lo zoom sui colli dei protagonisti, il peso di esistenze martoriate, l'effetto sfumato su dialoghi inutili e pesanti.


Letteratura classica/Gorki


Un mondo che va da Lubiana a Dushanbe, la sovietizzazione permanente o duratura delle abitudini, lo stile bucolico da regime comunista a illustrare le magnifiche varianti locali del tema. Figli adottivi, preti premurosi, litigi da osterie, sonni sommersi in soste di lunghi trasferimenti. Manifesto programmatico che conserva momenti autentici tra la retorica sempre in agguato del Maestro dimenticato di tutte le Russie. VOTO 6,5

lunedì 25 aprile 2016

Flags/Eurasia

 

THE HEART OF EURASIA

'Avete un coltello da cucina nello zaino', eredità di mesi fermissimi, la piazza del lusso e i suoi lustrini, i militari nei corridoi e la nota ospitalità a colpi di dolcetti per un cuoco che fa scena, il sabato perso nelle scale mobili di una coincidenza lunga. FRU fu bandiera bianca aeroportuale di un viaggio in Mongolia, il terminale ha gli stessi aerei e cappelli ingombranti che dettano le solite regole rigide del passato regime, un visa on arrival e un cartello che risponde al telefono e schizza veloce tra gli alberi già onnipresenti ai bordi della strada, Manas e il suo stile di rappresentazione, minimarket familiari, chiese e moschee nuove di zecca. Welcome to Bishkek, gli svincoli e i chilometri, i viali che si irradiano perpendicolari tra gli ovvi cadaveri architettonici e i condomini tristemente universali, le statue retoricamente innalzate al cielo e gli attraversamenti pedonali senza semaforo dedicato. Evropa, here we are, ci si alza al passaggio, l'acquario e i copricapi tradizionali, un cognac nel frigobar, una tazza di caffè per l'undicesima stella lungamente agognata. Le strade larghe del passeggio domenicale, 24 hours e scritte colorate, il cirillico che ben dà la misura alla russificazione (fortunatamente non permanente), cantieri di lunga gestazione e gelati italiani, pannocchie al sale e sottopassi di fischietti bipartiti. Le aiuole sono curate e i tulipani in fiore, all'ombra di un telone arde un gratar, i bambini vanno e vengono dagli scivoli, il bus aspetta alla fermata, i pedalò il divertimento assicurato degli scalini improvvisi e dei monumentali Lenin ancora in piedi, In un campo c'è un anziano tassista che non conosce le strade, il giro panoramico include la monumentalità tetra di sbiaditi edifici statali a piastrelle, il quartiere tranquillo la gemma della vita quotidiana disturbata dal solito timido innamorato di passaggio. E se la birra non è filtrata, il percorso serale porta ai limiti della città tra club e centri commerciali, ristoranti di ogni cucina e negozi di abbigliamento, sino al ritrovo di lusso per bambini viziati da tate e ceramiche da colorare, il sushi sacrificato ai cocktail occidentali e alle interiora nazionali. Piove e il fuoristrada va, Tarik fa un sunto di storia kirghisa, gli incroci delle principesse e i combattenti dei film, le invasioni da nord e il bilinguismo che non decolla, le università e i quartieri benestanti. Ala-Archa, un gorge che si apprezza anche con le nuvole a nascondere i bassi 4000 metri, i cimiteri del sincretismo tra islam e religioni locali arcaiche, i muri cintati a leoni con tetti colorati in lamiera, la strada asfaltata per l'auto del quarto presidente, i licheni gialli del torrente impetuoso, la neve dei percorsi sui sassi, le roulotte in disarmo dei pastori stagionali. I turisti indiani cercano 'women' nei bar/ristoranti/caffè dalla divisione poco chiara dove l'onnipresente chai si accompagna ai ravioli in brodo e al pane in stile gnocco fritto (boorsok), i tavoli da picnic di un verde scolorito, le conchiglie e le sigarette commestibili per pochi som, una bottiglia di vodka locale, catene americane al 50%, licenze di Starbucks e scarpe da corsa Li Ning, un'altalena nel fango in luogo dei ripidissimi scivoli. Viktor arriva e si impone da subito sui ricordi najatici di cene dai colori e profumi centro-asiatici, la lancetta stabile sulle miglia di divieti che nessuno infrange, il solito 'rebirth of the nameless' finanziato dal governo turco, un cancello chiuso e un controllo passaporti in uscita in stile alinico a strappare documenti dalle mani degli ufficiali. Bye bye Kirghisia  e tartarughe, il capannello dove si dorme, una biro in prestito, 'how do you say welcome in Italian?', qualcuno offre un passaggio solo per Korday, i tenge che arrivano facili, il passaggio della frontiera tra i quickest ever della storia pregressa del driver. E per il paese dell'aquila gialla è amore a prima vista, il primo flash l'Amerika di Wenders dagli spazi immensi rotti solo da pali della luce e improbabile cartellonistica, il secondo sussulto le incredibili montagne verdi a più riprese stabilmente negli occhi, le stazioni di servizio e i primi palazzoni della 'mega polis' da cui derivano le mele, al Farabi che si immerge nelle viscere verdi dell'ex Alma Ata (ora più romanticamente Almaty) regalando il nuovo centro commerciale da villa centro-italica, il grattacielo del Ritz, il restyling del trampolino per i giochi invernali asiatici, le torri gemelle di un complesso finanziario del 2000. Furmanova non è ancora stata rinominata (e attende forse la dipartita del padre padrone della nazione) e manda stilettate da deja-vu europei, l'hotel che rimpiazza la colazione in zona stadio è un corpo in putrefazione dalle stanze piccole con terzo letto e vista balconata, una finta yurta dipinta a ospitare il buffet di uova e uovet, un bar da bancone e resto bancomattato a tarda notte. E i piccioni della cattedrale ortodossa mangiano dai palmi delle bambine, il fenomenale museo degli strumenti musicali cambia musica dai sensori in ogni stanza, i papaveri rossi colorano di retorica il consueto monumento all'armata, un interno dimenticato e una bocciatura di Tripadvisor, i tronchi dalle lettere dipinte e le terme adornate dallo stile tardo-sovietico degli anni '70. L'ArbatArt è la pedonalizzazione che fa il verso all'ex capitale imperiale, il burek un monumento allo street food, il green market/bazar  un luogo ameno dal divieto di fotografia, frutta e verdura di una bellezza espositiva, souvenir kazaki senza boules de neige, la vopsea della seconda pasqua imminente, La serata più calma e meditativa ha i toni di un tramonto epico, una birreria sotto casa, i tre percorsi possibili tra Google, Gogol e il tramonto del vola-vola, un vestito bianco che ha uno zero di troppo e lento traffico sui binari di un tram che fu, Zheti Kazyna l'ennesimo spreco di foto da cellulare sulle varianti scelte del saporito cibo tradizionale. Il cappello verde si indossa per omaggio, i cammelli vanno lenti, la metro è nascosta come in altre latitudini della stessa provenienza, la monumentalità delle stazioni ha il piglio a volte deciso di chi si prende sul serio nonostante Baron Cohen, l'educazione kazaka a esigere il posto libero per le donne, anche se hai staccato da poco e il tragitto sotto terra ti serve per fare un pisolino. Tra gli studenti che affollano le numerose università ci siamo anche noi, una vetrata che protegge dal sole estivo, ambienti francesi per menù immensi, l'hotel della catena in costruzione, l'hotel del nome della nazione un raro gioiello di architettura soviet times, la funivia che sale al Kok Tebe a regalare suggestioni di piscine private e parcheggi collettivi. E i 50T non si lasciano di mancia non dovuta, sulla ruota non si mangia il gelato al puffo, un secondo biglietto per un quadro portato a casa, le scuse dello stop per lo scarso affollamento, le spalle delle volpi col cucchiaio e le terrazze in legno che si sognano ancora, una Torre Eiffel (di Rapunzel?) troppo piccola per essere originale. La stazione del cosmodromo delude, Sun City lontano di negozi di sport danesi, un ospizio nei luoghi dell'ex ospedale centrale, un canale che porta casinò e poca ristorazione, la salsiccia di cavallo nel pub nominalmente bavarese dell'ormai noto sconto 20% a pranzo. Il verde pallido della chiesa russa vale il busto di una casa museo, le matite colorate di un caffè newyorchese la bevanda rossa che riempie i tavoli di un triste fast food autoctono, la sfilata di bandiere la passeggiata in stile Rotschild Boulevard, il mosaic mix di shashlyk un assaggio di ogni carne disponibile prima del ritorno sognante nel taxi improvvisato dal cameriere del ristorante. Bagdad pontifica, l'alto della pancia e dell'età, Viktor è tornato per farsi votare 'high', l'escursione è quella del BAL, il Big Almaty Lake dal retrogusto canadese, acqua turchese anche ghiacciata, una bimba che dorme, la diga del check point, lupi da attaccare e pochi leopardi delle nevi sulle bandiere cittadine. Il parco del primo presidente e il tributo ormai permanente all'archiminimal, un museo invecchiato che regala suggestioni a scolaresche di provincia, omaggi di stato e il famoso uomo d'oro, un piccolo mall sotterraneo dove tutto è virato alla mela, le crocs decorate una pizza per Giorgio, la pioggia del ritorno per il compleanno della moglie. E l'aereo di grosse dimensioni per un volo interno si muove troppo nell'atterraggio della steppa, Air Astana, il nome facile da pronunciare per suggestioni complottiste sataniste, Jorge Lorenzo il volto dell'Eurasian bank, la Derbes ancora e sempre in lista d'attesa. un EcoTaxi elettrico da cercare per numero. Diluvia nell'incontro magico con la nuova capitale del Kazakhstan, l'Arena dimenticata nella nebbia, il villaggio Expo ormai terminato dove prendere contatti e info per l'evento del 2017, il traffico impazzito nei cantieri infiniti di una città bella, moderna, futuristica ma senza una vera identità. King non può fallire e regala un bonus indesiderato, il dinner included di raccordati scordati al bar della loro lunga missione di lavoro, il piano è basso ma i metri quadrati superano i quaranta, il bagno più grande mai avuto (cit.), i prezzi del bar che conservano qualcosa dell'era presvalutazione, la verza cruda scondita che si fa preferire alle due stelle Michelin. Switch di programmi per un meteo stabile nelle previsioni, è Old city di finestre (chissà se mia moglie stasera mi porta al Tiflis?) e gesti altruistici sulle scalinate, Calatrava style nelle mani inutilmente alzate in replica, una cupola e un pennone che sventola, Duman first round l'Okeanarium del viaggiare con i bambini e del tunnel di settanta metri. La strada narrata dall'occupatore di sedili, la svolta a destra per la sinistra in puro stile milanese d'annata, il saluto del ristorante su Facebook ad un plov dolce e una reiterata zuppa di pollo, un espresso (malika!) per lo skyline in divenire dal grande potenziale, Duman second round una tessera di un percorso nella giungla. E la sfilata di ristoranti architettonicamente richiamanti Vegas, salamandre che invitano al riposo, una KACCA chiusa dove sognare il lago dei cigni, l'innaffiata improvvisa che fa cercare riparo presso la società del gas, impronte digitali per l'apertura delle porte e vetture chiamate che come sempre non arrivano (Call me!). La simbologia della targa in tre numeri, il sole e il motivo ornamentale, Foster fa uno schizzo con l'ascensore in diagonale, tra le ventuno nazionalità ceceni e balkari, la colomba della pace e il winter garden nel progetto originale del meeting dei leader religiosi, Ci si perde nel blu dell'anello delle belle arti, la visita ufficiale dall'Afghanistan, un presidente che pianta alberi per un rinfresco a suon di radio, telecamere e croniste d'assalto tenute a bada dai bodyguard, un'aquila d'oro che si muove nel preshow dell'Astana hall, tappeti decorati a modern art, un turista malese per le indicazioni del parlamento e del senato nel sentore Chinese Washington degli architetti italiani e delle torri dorate dalle piastrelle che si stanno già staccando. Bayterek e una foto ricordo sottolineano l'importanza dell'assenza delle pecore telecomandate, l'ingresso è al quarto tentativo, spasiba is russian (not good), allora rakhmat merita una stretta di mano tra le insegne viola di nomi noti e le pagine di un libro verde che si aprono verso l'ultimo piano, la visita guidata nella magniloquenza dell'impresa di costruzioni albanese, la piccola sala per la musica da camera, la famosa cantante lirica del Tatarstan e l'immancabile marmo italiano. Khan Shatyr, tutti tranne la mamma (escono e fanno atmosfera rétro), la yurta fosteriana che conserva calore offre Massimo Dutti e percorsi acquatici, shisha prezzata e birra come sempre d'importazione, l'ormai standard banconota da 1000 per ogni distanza cittadina. Chiude il numero uno, no reservation, Line Brew pub, la torre di un castello in mattoni, i semafori come unità di distanza, il centro congressi dell'era di Tselinograd e le caffetterie affollate del sabato sera, una Hyundai dall'aggressiva guida femminile l'ultima perla kazaka. Now fasten your seatbelts. Ma tu lo sai chi è il Floopaloo?

giovedì 14 aprile 2016

Cinema kazako/Mongol



Sceneggiatura 6: la nascita dell'impero più potente della lunga storia centro-asiatica, venature di propaganda diluite nel sangue vero di combattimenti ancestrali senza arcieri.
Scenografia 6: vallate buie e rocce antropomorfiche, sedute lunghe e pozzi di prigionia, estetismo classico virato al gotico medievale.
Cast 6: il 'mongolo' ha tratti somatici più occidentali e svetta nella seconda metà della pellicola, le lunghe barbe degli elmi e delle bandiere a sventolare nel vento delle radure.
Regia 6,5: brevi scatti descrittivi inusuali, un senso di torpore nero che si accompagna alle vicende narrate di piccole tribù e del futuro grande di un predestinato.


Cinema kazako/Nomad



Sceneggiatura 5: la nascita di un popolo, ossia il sentimento nazionale che in alcune parti del mono accomuna le lingue riconosciute all'obsoleto concetto di patria.
Scenografia 5: città turkestane (di nome e di fatto) ricostruite con semplicità in una piana assolata, gabbie di linee di successione e assalti fratricidi nel silenzio delle tribù estinte.
Cast 5,5: nomi internazionali prigionieri del copione affettato, retorica che gronda copiosa come il sangue, scene corali di orchestrazioni sufficienti.
Regia 6: da manuale del kolossal storico interpretato alla lettera, tra carovane di paesaggismo e pause dialogate eccessivamente esplicative e dettagliate per l'epoca narrata. 


martedì 12 aprile 2016

Cinema kazako/Tulpan




Sceneggiatura 7: pastiche ironico e drammatico, l'esperienza di un militare, il cuore del nomadismo, il vento dell'occidente che parla in prima persona.
Scenografia 7: un unico grande protagonista, la steppa sterminata di km e km di sterrati e tramonti, campi tendati e animali al pascolo.
Cast 7,5: due anime dalle orecchie a sventola, una schiena che non svela il volto, vecchi saggi di un immobilismo dovuto, pecore che nascono nel deserto.
Regia 6,5: scene pastorali che muovono il cuore, dialoghi da yurta di un umorismo non sempre immediatamente chiaro, tempi morti da pianura sterminata.


venerdì 8 aprile 2016

Cinema kazako/Harmony lessons



Sceneggiatura 6,5: un messaggio di fondo e altri subliminali non sempre chiarissimi, la metafora di un paese in balia ai bulli, la vendetta lenta ed eccessivamente didascalica.
Scenografia 6: rimane impressa nella memoria la pianura iniziale dagli alberi isolati, l'orizzonte spaziale delle riprese poi circoscritto essenzialmente a interni di scuola e capannoni di attività clandestine.
Cast 6,5: un gruppo di studenti e una dama velata, l'uniforme delle scuole post-sovietiche e una classe dirigente disorientata al massimo.
Regia 7,5: nicchia dichiarata, arte fine a se stessa, Baigazin dirige quadri fissi e punti focali sempre estetici in un collage generazionale cui manca l'incisività della rabbia.

Letteratura contemporanea/Aitmatov


Una storia tratta da una pagina grande, il dramma della morte del grande ideologo nella mente ristretta dei seguaci, il maschilismo accentuato di società ancora tribali, il ruolo della scuola incompiuto di indottrinamenti indirizzati, una storia d'amore di matrimoni combinati e ricchezze locali ambientali. Breve e di superficie. VOTO 6

sabato 2 aprile 2016

Cinema colombiano/Embrace of the Serpent



Sceneggiatura 7,5: due momenti della stessa storia, due piani narrativi intrecciati e interscambiabili, la scomparsa universale delle culture autoctone nella voracità coloniale di stati e religioni,
Scenografia 7,5: il bianco e nero che riempie la scena, porticati di missioni e meandri amazzonici di foresta madre, la fotografia artistica senza stucchevolezze.
Cast 7: due anime da impersonificare, l'ingenuità e la disillusione, i  portatori di civiltà e frustate a cercare il profitto e la gloria individuale.
Regia 8:si parla già di ciroguerrismo, poesia che cola ed evolve da semplice esercizio stilistico a grande affrescatura di sistemi consolidati, un messaggio urlato nel silenzio dei giusti.