sabato 8 luglio 2017

Flags/Peru and Bolivia

 

LE TERRE DEL PROTECTOR SUPREMO

Le piastrelle dipinte hanno i prossimi colori della grande assenza, il breve ritorno nell'International Central America regala solo nuvole, e il giovane capitano plana nella bandiera più attesa e desiderata lasciando l'introduzione ai cartelloni pubblicitari del Callao, i concessionari auto di Bellavista, i college israeliani e i bar malfamati di San Miguel, Magdalena del Mar un malecòn che verrà, San Isidro la curva che sale a superare i faraglioni anti tsunami in una città diversa, NM stands for Nuevo Mundo. Dolares a Soles, il cocktail di benvenuto che la nuova regola non scritta pospone ai saluti, una colazione quasi scandinava per un cielo grigio costante della città, en invierno es siempre asì, l'anziano discendente degli austroungarici italici a guidare tra le memorie di Vargas Llosa di fermate dell'Espresso, lo stadio dove non si giocherà la partita serale, un palazzo copiato da Bruxelles e hotel di lusso di un'economia che cresce, la piazza bianchissima del generale argentino il nostro approdo dell'itinerario per Lima centro. Catene che fioriscono e lasciano petali di succursali, chiese barocche di facciate riccamente decorate e organi dorati, elemosinanti composti e caffetterie semideserte di un orario precoce por el sabado, la visita che non concede inchini alla tomba del conquistador ma ammirazione indefessa per i quadri religiosi della collezione arcivescovile, il primo museo della bevanda per un thé a 0 metri sul mare, Perù campeon il ritmo del mercato popolare, tricolori di layer per le vie malmesse e un grandioso convento a catacombe, libri antichi e divieti di fotografia. 2 de Mayo e un tram per i cadetti cani, Brena la sublimazione dello sfacelo architettonico in povertà diffusa, Pueblo Libre la scelta di un ristorante che magnifica collezioni archeologiche del grande Larco (la sezione erotica occultata a visite facili), piatti sbagliati e una coperta per l'inverno, Pisco sour d'ordinanza e commissioni di carte di credito a creare il panico tra gli idoletti inca ormai famigliari. Inkafarma e MiFarma a ogni angolo di strada, cevicherie economiche che hanno chiuso per guide sempre meno aggiornate, la tranquilla eleganza di strade dagli alberi appena piantati, vibrazioni di Omotesando, il Nikkei e la carne ad accompagnare fortunati tentativi falliti di una cena da racimolare con gaudio al cocktail bar di Astrid y Gastòn (Acurio), in lontananza il Novotel mancato di Charlie, gli assaggi del menù degli antipasti sublimi, la palla gigante (Santa Bomba) che induce turisti ad alzarsi in un tripudio cucchiainante di marmellata, gelato, mandorle, spezie, frutta secca e panna per le 5 stelle obbligate di recensioni Tripadvisor non pagate. Latam non ha ancora ridipinto nessun volo dopo la fusione, la tariffa più alta è quella che dà diritto a meno servizi, un pugno liberatorio post Cristal per una partenza di avvistamenti americani orribili oltre le cime delle montagne, i 3300 che si sentono solo quando tutto parte dalla testa, bombole di ossigeno per gente poco allenata, un cortile porticato coloniale da immortalare nella memoria, Limo una cucina delicata che propone il classico immortale mentre nella Plaza de Armas scorre la fiesta de Junio, uno slalom di scatti e riposi per un inutile tentativo di check in anticipato, Cuz(s)co a catturarci con i suoi tetti e le sue stradine selciate di capitani rossi che non soffrono il freddo della sera. Il pacco consegnato al tempo dell'aji de gallina aveva lasciato presagire i primi dubbi di chi si agita per tutto, uno chef a recapitare la colazione alle 3 del mattino, il solito Georgina per chiamarci a raccolta, un microbus a gestione locale per il tragitto buio della Valle Sacra, Perurail che si fa preferire a Incarail per livrea e orari, un mate de coca ad alleviare l'agonia di un Ricardo assente, gabbiotto di informazioni, telefonate cortade, whatsapp che verrà e una salita da non fare a piedi, la colita sopportabile per la salita dei precipizi del padre che magnifica già con l'immagine distante della cittadella perduta. Machu Picchu, ovvero quanta (troppa) distanza tra la sesta e la settima e ultima nuova meraviglia del mondo, una piccola rampa di scale per una grande vista, le persone che si perdono negli scatti della mente, dettagli architettonici da gustare con la dovuta calma nella mancanza di una guida hablante, lo scenario circostante (buona) parte del tutto, simpatici lama a brucare un'erba verdissima, la Cusquena del modesto belvedere spunto di riflessione sui traguardi raggiunti nella vita. L'ormai ex Aguas Calientes, un tempo tempio dismesso della costruzione non terminata, cerca nuova linfa vitale in un nome scontato ma allo stesso tempo necessario, Machu Picchu Pueblo is the way, la stazione ferroviaria griffata, cause e truche, il mercato delle boules che si colorano, qualche ristorante e hotel di un certo livello, la poesia preservata dalla valle fluviale e dai romantici binari del treno in paese. Il lungo viaggio di ritorno tra le ovvie melodie del Condor Pasa non riporta la signora sui nostri binari, ma le suggestioni migliori sono per l'ultimo tratto di uno degli undici bus, Ollantaytambo e le sue mura dalla squadratura perfetta, le stazioni di servizio in galloni, un cartello nella notte che gira da sige a pare, le haciendas di Urubamba, i tornanti di buche e luci distanti, le pollerie infinite dell'ingresso nella capitale inca attraverso i sobborghi più poveri, un ennesimo Hilton dal pessimo gusto estetico, un'altra fiesta a trascinare i nostri passi stanchi di 18 ore di escursione. L'illuminazione degli studi televisivi fu solferinante, il buffet caldo del colloquio di lavoro, la relazione padre-figlia della singola attrazione, la clemenza del vigile e la tariffa concordata, i preparativi intiraymiani della grande recita teatrale all'aperto, scolaresche in uniformi colorate, la scivolosità dei grandi gradini, Manco Inca il ribelle sconfitto, que viva Vilcabamba, i derubanti del Cristo Bianco, la solennità dell'insieme penalizzata dalle visioni eterne del giorno precedente. San Blas con le sue porte blu proietta una versione ancora meno turisticizzata della profezia della curandera, la propina per lo scialle rosso, i gatti viola e la pietra dai dodici angoli, un b&b di scalini e lavori in corso, la vista a spaziare dal ceviche al pisco sino agli hamburgher degli immancabili dominatori attuali, l'arrivederci composto e commosso a nutrirsi di segnalazioni fotografate, bandiere arcobaleno di un altro orgoglio e discussioni senza fiato, il terminalino Cruz del Sur per magrezze di gioventù e poker di anzianità, l'ossessione per la sicurezza a imporre regole restrittive sulle finestre fredde delle chiese colorate nel nulla dei trasferimenti notturni. Arequipa è da subito la città dei cortili; bianchi, come da banale definizione ufficiale, rossi, blu e gialli di vernici che contrastano con il sillar dominante della splendida Plaza de Armas ingentilita da palme e porticati a menù fissi e camerieri intraprendenti, grigi di periferie scomposte a tifare Germania nel vibrare diffuso di un milione di abitanti. La colazione è francese perlomeno nominalmente, il Wi-Fi con clave, la visita alla città nella città anticipata a prevenire le immancabili pecore telecomandate, cori sospesi sotto lo sguardo vigile del vulcano attivo, ombrelloni religiosi di nuovi edifici per le monache, nomi che evocano immancabilmente l'ex potenza coloniale, il caldo percepito il più elevato della vacanza, suite presidenziale di cortili chiusi e viste pubbliche. E in questo Perù immenso e diversissimo da località a località, il nostro controllo qualità è da dedicare alla cucina, Dimas il rinfresco perfetto di un pesce leggero all'ora della pausa pranzo delle giacche e cravatte, Chicha il nome noto da virare ai prodotti a km zero, cocktail da versare e pane integrale da imburrare, organi della cattedrale da suonare, cupole rosse da fotografare di sfruso, collezioni private di cedri morti, un vago sentore messicano a prevalere nel tramonto fresco del tricolore sul pennone, nel ghiaccio amaro della Casa Andina di business, tra le proteste assai poco credibili di manifestanti autodisperdentesi. La croce del sud e le banane fritte e fredde, il diritto al terminale, le poltrone di un televisorino, lo zaino composto e quello scomposto, cruzando a Peru, gli agricoltori nei campi, le stradine laterali di un governo corrotto, l'inerpicarsi per qualcuno ancora estremo ai 4200, i genietti della domenica a concludere le proprie scorribande con un finale thrilling mentre Juliaca la capitale delle pollerie regala insegne colorate a profusione lasciando i borrachos che ciondolano sugli schermi esaltati dei pessimi recensori di lingua inglese. Puno, terra promessa dell'altitudine, aquì estamos Keiko (the loser), infinita discesa di periferie povere senza una casa terminata in intonaco, l'avenida Sesquicentenario e lo stadio in costruzione, memorie di vacanze mediterranee, i binari di casa da attraversare, cerveza Pilsener, l'indigena che staziona sulle scale, il motel lacustre di livello e il suo ristorante di zuppe e bombolette dell'ossigeno, tomar poco y beber coca. La seconda agenzia turistica locale e i dollari dimenticati, occhiali da sole del Brasile, un cappellino tedesco e chullos di messicani del weekend, battelli che salpano e guide intercambiabili per un programma di minima assai ben riuscito, le isole di totora galleggiante della minoranza Uros, Titicaca di proporzioni immense e scenari che fanno rilassare, Taquile di passeggiate a ritmi ottuagenari per ristoranti socialisti dallo stesso menù e dallo stesso prezzo, lamiere bicolori, tiene que pagar, centro artesanial e foto ricordo a profusione al pontile di un ritardo fisiologico, le luci della notte a calare su un sour leggero da gazebo marittimo. TourPeru, recensioni scadenti giustificate, el Wi-Fi es en una otra ruta, Arequipa, ripariparipariparipa, la vita al terminale di Lucio e della sua attività veneta trapiantata in Bolivia, la nonna argentina e il nipote raffreddato, i controlli di dogana sorprendentemente rapidi e indolori, l'alto Perù che ci accoglie col sole dei bolivianos a 6,85 e una chiesa gialla al confine che si può riprendere senza sguardi minacciosi. Patatine Lays per gli olandesi che superano gli autoctoni nelle vie in salita di Copacabana, sentore brasiliano che si limita al nome tra matrimoni di riso a profusione e ospedali coloniali, numerini universali negli sportelli delle banche, lungolago depresso da fuori stagione, nachos mex per un cameriere corridore di smartphone esigenti e trabiccoli negri da noleggiare sino alla prossima destinazione, un barco che supera l'istmo decalatravato di Tiquila. Sì Evo (No), quotidianità di Cordilleras come sfondo, dignità monumentale di grandi ufo, la sterminata periferia della periferia che incombe già, El Alto, un nome per molte strade uguali e case che non valgono quanto promesso, il capolinea del MiTeleferico una chavezata assai meglio concepita rispetto a quanto fatto a Caracas, mercati di strada e aree sportive nell'interno dei quartieri in serie, una lista impressionante di campanili bianchi di chiese protestanti, una statua di Che Guevara costruita con rottami di aereo. E poi all'improvviso un'autopista e una fulminazione, la luce che inonda una valle urbanizzata, La Paz, la grande capitale dei ministeri del nord, una fitta al cuore per un benvenuto da subito eterno tra strade strette di hotel economici, negozi equosolidali della propaganda e autisti folli che parcheggiano in discesa direttamente in Saramaga, il presunto centro del malaffare dei facili allarmisti. Pacenos forever, davanti e dietro backpackers for once, la signora del choclo che non c'era più, il semaforo a conta, il ristorante di Stefano, la salita con gli sfaccendati di Commercio e le offerte telefoniche sempre dominanti, monumenti sciupati di un circuito coloniale a case colorate, Huari la scelta inconsapevole del 115 da celebrare, Hotel Montecarlo e cibo di strada, un roof di moda al tramonto epocale di quesadillas e giovani compagnie locali a rum e cola. E un breve percorso fragile notturno, bar da bevute per soli uomini, interni parigini di palazzine, decadenza aggressiva dei centri commerciali, l'odore della consapevolezza, una strada in discesa di un altro itinerario, secondo piano e cantine lucchettate, l'attesa nella quotidianità della metropoli per un bus turistico solo di nome. All Tourism e il progetto di Gustave Eiffel, il tragitto allungato per passaggi a dipendenti e conoscenti, la lunga attesa che sveglia l'ansia britannica alle saltenerias dei sobborghi elaltini, il sonno che prevale su Oruro e concede a malapena l'ingresso nella porta del Salar, quella Uyuni di torri campanarie posticce e simmetria diffusa di caffetterie per londinesi di uno yacht club, uffici turistici a una vetrina e giostre per poveri in una Armas decentrata. Avenida Feroviaria porta il nome dell'attrazione più semplice che il mancato progresso lasciò in eredità, le fabbriche che producono sale una bustina a un boliviano, trattori e musei, gli occhi e i cumuli che deludono le aspettative dell'EXPO, i cubi e le sedie tra lattine di chi beve ancora Coca-Cola, un'isola (non del Pescado, n.d.J.) a cactus per una comida e un'offerta inevitabile alla Pachamama nella sensazione incredibile di non avere visto posti così belli in venticinque anni di viaggi. E le mummie del Mitsubishi che arranca in salita, un villaggio ai bordi del deserto, il tramonto dei riflessi e delle ombre, una ruota di scorta per un cane randagio, Hostal San Marcos, il nostro San Juan de Rosario a regalare vino e no calefacciòn, gruppi turistici immancabilmente tristi, nos vamos a dormir?, Europa!, una cameriera pigra che prepara l'immancabile pollo di queste latitudini. Le lagune boliviane sono il sogno di tanta gente, i percorsi sterrati al limite dell'impossibile, le frontiere col Cile di sepulvediana memoria, il mirador di un vulcano spento, rocce marine, fenicotteri rosa e buoni pasto da giocarsi a tempo scaduto, la maledizione della neve che nel 2017 falcidia le batterie del Fotografo Timido, una pala per José all'hotel Shining-like, ayuda, e se Red Planet procede dall'alto delle sue tariffe, gli altri parimente si bloccano nella tempesta di neve azionata dal vento dei 4600m. Uno spezzatino di lama tra i giardini di Uyuni, un thé da versarsi sugli occhi nella notte buia, il bus verde dell'urlo cadenzato Potosì, Potooooooooosiiiiiiiiii, i russi obesi che divorano la saltena dell'ambulante dell'11 de Julio, paesaggi vulcanici di lagune accessorie da recuperare, la storia tremenda delle condizioni di vita e morte dei minatori, un bano publico di discese agli inferi a quattromilaecento, il taxi ostico di stadi regali e percorsi a senso unico nell'ora dell'uscita dalle scuole. La certificazione UNESCO per l'antica città dell'argento arrivò addirittura nel 1988 (tre anni prima che a Sucre, n.d.b.), e l'atmosfera generale riflette questa preservazione precoce, tra angoli di strada pittoreschi e targhe bicolori, sopas de patas, l'immancabile birra locale, una Moneda di stanchezza, Teresa e Francisco, i colori della bandiera principale come luminarie, un cortile per bimbi di lingua francese che fanno i compiti, il pollo virato piccante al chili giallo, freddo da montagna e un servizio attento di un tenedor non ancora arrivato su The Fork. La sigaretta all'alba delle istruzioni sbagliate e l'attesa fuori dal terminale per i soliti urlatori e amanti in gita, hotel di una crescita economica moralesiana, la meta ora è la seconda capitale ufficiale (l'unica secondo attori pagati per recitare in guanti bianchi), segni della croce di frenate sui tornanti, collegi militari di paesaggi per una volta quasi normali, tangenzialine della preistoria con paradas improvvisate e filari di alberi a ingentilire la chicca estetica della Bolivia. Chuquisaca, questo era il nome prima della generalizzazione, la volpe ci carica assieme ai pacchi di un biondo autoctono, appuntamenti che si riveleranno ottimali, i sotterranei che hanno il nome della password, il primo cortile blu, il secondo cortile rosso, il terzo cortile giallo, il quarto cortile bianco, gli orari dell'ente internazionale sono complementari, un buffet di insalate e contorni per il giovane stecco e birre medie per chi è più appesantito. Frenesia da visita turistica, non si sale dalla polizia, il museo ecclesiastico temporary closed, chocolate Para tì che verrà sequestrato, i rigori portoghesi parati da un Bravo, la connessione Internet e la notte dei musei che per le suore finisce prima, la ricchezza inestimabile dei affreschi restaurati e degli organi in legno di messe serali alle 18, il campanile dei lavori in corso, il San Felipe degli opuscoli turistici e la sublimazione bolivariana con una lezione di storia che vi farà applaudire. Il lato gastronomico sofferente, La Posada di scelte ovvie e funghi che non sono in azione, Tarija e i suoi vini, il risveglio con omelette e viaggi interminabili di traffico in uscita e 32 chilometri, muy largo, el nuevo, cinque bolivianos di mancia e un terminale nel nulla di atterraggi diffcoltosi da tramandare alle guide non aggiornate e ai magazines della BoA che colpiranno nel segno. El Alto, La Paz, we are back (and we would like to stay), la via diretta che scende sino a Supu Kachi, aymara e quechua on the rise, il Tetris che allieterà la nostra stellina lontana, un caffé segnalato e buio, lavavetri, cibo di strada e torte giganti da cerimonia, zoom stanchi di finestre colorate, una piazza monumentale che allieta bimbi e piccioni, il picchetto di guardia per gli edifici color senape, un hotel di charme da recuperare e un prelievo eccessivo da rimandare nel déja-vu del mercato delle streghe, magneti sconfitti, no van attender, maglie da calcio che hanno perso 4-1, la sede di un rimborso da verificare per un nome uguale da confondere. E la salita del welcome drink del Camino Real imbrocca subito la sartoria su misura del prossimo grande nome della moda milanese, carta da zucchero e scalinate patriottiche, la steak house opportunamente bypassata per il ritrovo felice degli expats francofoni, cucina a vista e piatti sorprendenti, Tannay di delirium tremens postumo per strade da ripercorrere alla Eyes Wide Shut: il giro delle foto senza fonduta svizzera, il giro del pranzo per un pique a la macho da desiderare, il giro perlustrativo senza dati al supermercato, il giro dell'aperitivo per una cena con piatti rossiniani da desiderare, la versione locale di Retake Milano ancora comunale tra gli studenti universitari e l'immigrazione recente degli zaini rosa griffati. La vita è ciclica, diceva un giovane inesperto, e anche qualche viaggio lo è, riportando le suggestioni iniziali tra i titoli di coda, la Lima dei quartieri ricchi e della gente a passeggio, l'universalità dell'Ibis a rendere graduale il trapasso, quindici tavoli già occupati al La Mar per un ceviche da sognare di notte in aereo e oltre, sciarpe in alpaca come souvenir terminali, una Huaca gloriosa per Lorenzo Drake, il mosaico dei prodotti tradizionali e il Central chiuso alla domenica, una barra rafaeliana d'eccellenza che tocca l'apice della capitale gastronomica, tiradito addicted, Tanta non sarà roba, Barranco in fase di rilancio un potenziale da cartolina anche per la Horrible. Adiòs, eso fue un viaje lindisimo.

Nessun commento:

Posta un commento